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Muoversi nei problemi della vita
Yoga, avere obiettivi e presenza mentale
La sensibilità ci è di ostacolo o di aiuto?
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Il senso della vita: una domanda urgente
Yoga semplice: partiamo dalla realtà e da ciò che possiamo sperimentare
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Le origini dello Yoga risalgono a ben 5000 anni fa, forse più. I più antichi reperti storici vennero trovati nel 1927-1931 negli scavi archeologici di Mohenjo-Daro e Harappa.
Queste città fiorirono nel periodo compreso tra il 3300 a.C. e il 1600 a.C. e sono tra le più importanti città fortificate della civiltà della valle dell’Indo anche se i primi stanziamenti di coltivatori nella zona risalgono alla metà del settimo millennio a.C..
Degno di nota è che ad Harappa tra il 2600 e il 1900 a.C. venne introdotto uno dei più antichi metodi di scrittura. A seguito di alcuni cambiamenti climatici e le condizioni di coltivazione rese più difficili da continui allagamenti Harappa venne definitivamente abbandonata nel 1600 a.C e la popolazione, dispersa ai piedi dell’Himalaya, abbandonò l’uso della scrittura con un conseguente impoverimento culturale.
Mohenjo-Daro, cittadina analoga di circa 40.000 abitanti era piuttosto ricca, aveva scambi con la mesopotamia, e nella parte centrale poteva vantare opere di edilizia molto innovative per l’epoca: bagni pubblici, sale per conferenze, pozzi, rudimentali fognature e gestione delle acque sporche, alcune case addirittura con fornaci sotterranee per riscaldare l’acqua.
I reperti trovati per quanto riguardano lo Yoga sono alcune statuette di argilla che mostrano alcune posizioni che venivano praticate ai tempi.
La religione dell’epoca di stampo dravidico basava il suo culto sulla Dea Madre, identificandola con la fecondità e con la forza della natura, sul culto di Shiva, sugli alberi sacri, simboli fallici, vacche e cobra sacri. A questo periodo risalgono alcune rappresentazioni del dio Shiva in posizioni yogiche per potenziare e sublimare le energie sessuali.
A seguito delle invasioni degli Arii (1500 a.C) le popolazioni della civiltà dell’Indo, già in difficoltà per le condizioni sempre più difficili di agricoltura, vennero disperse. Gli Arii, uccidendo e costringendo i superstiti alla fuga verso le regioni centro-meridionali dell’India, dove ancor oggi troviamo discendenti come la popolazione dei Tamil, si insediarono nella zona che divenne nuovamente fiorente.
I sopravvissuti, sfavoriti dalle forti differenze somatiche, furono relegati in fondo alla piramide sociale indiana, costituendo i Parya, o fuori-casta, ma portarono con sè usi, costumi, aspetti religiosi e anche lo yoga.
Far risalire le origini dello Yoga alla popolazione Dravidica ad alcuni dà fastidio perché verrebbe riconosciuta alla classe dei Parya un’importantissima eredità. Tuttavia ci sono studiosi indiani che con coraggio riconoscono alle popolazioni di lingua Tamil derivanti dai Dravidi questo merito.
Shiva, nelle sue originarie caratteristiche sessuali, risale alla divinità dravidica e viene affiancato a Shakti, la Madre Terra.
Il tantrismo e l’Hatha Yoga che ne deriva, non sono figli dell’India ariana bensì della più antica civiltà dell’Indo. La stessa espressione Hatha Yoga dimostra l’origine non ariana: Ha “Sole” Tha “Luna” sono termini decisamente differenti da quelli sanscriti Surya e Chandra.
Presso la religione induista, il Liṅga consisteva in un oggetto dalla forma ovale, simbolo fallico considerato una forma di Śiva. In termini metafisici, rappresenta la forma dell’Assoluto trascendente senza principio né fine, oppure la forma del relativo formale che si fonde con l’Assoluto senza forma, o Brahman.
Mano a mano che la civiltà degli Arii cresce florida ecco nascere la grande eredità Vedica. Le energie di Shiva e Shakti si rivedono nelle tre divinità più importanti del culto Induista: Brahman, il creatore, Vishnu, colui che mantiene il creato, e Shiva, colui che lo distrugge e grazie al quale il nuovo può manifestarsi.
La controparte femminile di questi tre dei è Saraswati per Brahman, Lakshimi per Vishnu e Parvati per Shiva.
Saraswati
Lei rappresenta la parola, l’eloquenza, la sete di sapere, la conoscenza intellettuale, mentre come retaggio ed evoluzione della sua antica connessione con il fiume simboleggia anche l’acqua e, per estensione, la pulizia e la guarigione. Chiara, luminosa, associata a immagini come il cigno, il loto bianco e il colore bianco in genere, è però talmente virtuosa e spirituale che sessualità ed eros sembrano non appartenerle. Al punto che anche il suo rapporto con il dio Brahma è ambiguo: ne è sia figlia sia moglie. Ma non c’è niente di incestuoso, piuttosto la leggenda di una dea creata appositamente dal proprio sposo con una missione, quella di promuovere e proteggere la conoscenza.
Lakshmi
Siede serena su un grande e roseo fiore di loto, simbolo di purezza e spiritualità, la “dea madre” Lakshmi, consorte di Vishnu e madre di Kama, il dio dell’amore. Dotata di carnagione dorata, dolcissima femminilità e classica bellezza, ha quattro braccia e le sue mani sono ornate di gioielli: con una offre benedizioni, un’altra invece lascia sgorgare da una coppa monete d’oro e altri simboli di prosperità e abbondanza. Le altre due, infine, sorreggono ciascuna un altro fiore di loto. Spesso accanto a lei compaiono corsi d’acqua placida o elefanti, entrambi manifestazioni di impegno costante e di realizzazione materiale e spirituale. Considerata anche dea della ricchezza, è presente in forma di immagine o statuetta in moltissime case induiste. Dolcezza, protezione e maternità sono le sue caratteristiche, e nella tradizione la donna sposata dovrebbe ispirarsi a lei, serenamente intenta a dare sostegno, così come il marito dovrebbe cercare nella moglie un’idea di Lakshmi. Ed ecco allora che nell’iconografia abbondano anche le immagini di felicità coniugale di Lakshmi e Vishnu, spesso raffigurati insieme mentre sono affiancati, legati, abbracciati, con lei appoggiata sulle ginocchia di lui oppure intenta a massaggiargli i piedi.
Parvati
In un intreccio che sembra ricordare “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock, la leggenda narra che la prima moglie di Shiva, Sati, diede fine alla sua vita immolandosi, spinta dalla vergogna e dall’indignazione dopo che suo padre aveva offeso il genero non invitandolo a una cerimonia, e che da allora il neo-sposo e subito vedovo Shiva, consumato dal dolore, si rifugiò nell’Himalaya per vivere da asceta, meditando e rifiutando la vita terrena. Ma la rinuncia all’amore non era destinata a durare: ecco ripresentarsi Sati reincarnata sotto forma di una nuova donna-dea, Parvati, figlia della personificazione della montagna e di una ninfa. La saggia e bella Parvati, le cui grazie estetiche non sembrano destare alcun interesse nel suo amato Shiva, capisce che deve ammaliarlo giocando nel suo stesso territorio e anche lei si rifugia da asceta nella montagna, finché l’oggetto del suo amore, conquistato da tanta spiritualità, non si decide a prenderla in moglie. Esiste anche un’altra versione della leggenda, più affine alle occidentali storie di Cupido: secondo il romanzo epico Kumurasambhavam, il dio dell’amore Kama decise di aiutare Parvati scoccando una freccia in direzione del dio che meditava, per colpire la sua attenzione. Distratto dalla meditazione, Shiva aprì il terzo occhio con cui però incenerì all’istante il povero Kama, privando così anche il mondo della forza del desiderio sessuale. Ma con l’intercessione di Parvati, nel frattempo divenuta la nuova moglie di Shiva, ecco resuscitare Kama. L’iconografia tradizionale mostra due sole braccia per la bella e gentile Parvati, con il sinistro leggiadramente sollevato e il destro che tiene in mano un fiore di loto. Detta anche “figlia della montagna”, è madre di Ganesh e Skanda e anche lei rappresenta un idea le femminile di delicatezza e benevolenza.
Il sistema a caste aveva all’epoca anche la sua ragion d’essere, partendo dal Re che era illuminato, le caste più vicine erano quelle che più assomigliavano al Re in termini di conoscenza e visione, dall’alto al basso le caste non avevano la stessa levatura interiore e avevano compiti diversi.
Ad esempio lo Yoga era solo per le caste più elevante e che divenivano a loro volta manifestazioni di ciò che avevano realizzato.
Le caste erano quindi come le diverse parti di un corpo umano, ognuna con ruoli diversi seppur tutte necessarie affinché il corpo possa vivere. In questo modo si generava anche un movimento verso l’alto, infatti le caste minori erano spronate ad elevarsi interiormente per poter passare alle caste più alte.
Logico che se il Re non è illuminato e le persone invece di essere messe nelle varie caste in base alla levatura interiore sono messe a caso il sistema non regge. Tuttavia le caste sono perdurate fino ad oggi anche se non rispecchiano più la logica originale.
la rivelazione (Sruti) dei veda comincia nel quindicesimo secolo a.C.
Si ricorda che fino al primo secolo dopo Cristo la trasmissione dell’insegnamento avveniva oralmente in lingua Sanscrita, lingua conosciuta solo alle caste indiane più elevate.
I Veda sono divisi in raccolte, chiamate Samitha (Samitha=Insieme), e sono inni, formule magiche di magia bianca e nera, preghiere, mantra…
Fu rivelato ai Brahmani – sacerdoti del tempo e poi aperto come sapere anche agli kshatryia – guerrieri e anche ai Vaishya – commercianti. Non venne comunque mai rivelato alla casta dei Sudra.
Le diverse Samitha sono:
1.RG – Veda
2.Sama – Veda
3.Yajur – Veda
Il popolo degli Ari (da Arya = nobile) arrivato in india a seguito di migrazioni che partirono dal nord est europeo tramandò lo yoga alle popolazioni locali.
In europa vi era la glaciazione e quindi questo popolo migrò in paesi più caldi e miti per poter sopravvivere, logicamente dove c’è caldo c’è anche vegetazione e cibo.
I Brahmana e Araniaka (detti anche Vedanga) sono i canti delle foreste, canti fatti dai Rishi che si spostarono appunto nelle foreste.
Le Upanishad (che vuol dire “seduti ai piedi del maestro” e che sarebbero i Vedanta, ossia gli insegnamenti pratici dei Veda) sono scritti posteriori e risalenti tra l’ottavo e il terzo secolo avanti Cristo e si dividono in antiche e medie Upanisad in base al periodo in cui vennero scritte.
Nei darsana (Drs=vedere, Darsana=visioni) invece abbiamo i sistemi per mettere in pratica le rivelazioni dei Veda e liberarsi dal Samsara
E’ il metodo scritto per realizzare quanto scritto nei Veda (Veda, Vedanga e Vedanta) e comprendono nello specifico 6 sistemi ordodossi, ossia Samkhya, Yoga, Nyaya, Vaiesika, Mimansa e Vedanta e tre sistemi eterodossi, ossia che contrappongono una visione che non ammette l’esistenza dell’Atman (Atman = Dio) e sono il Buddismo, il Jainismo e le scuole materialiste.
E’ durante lo sviluppo dei darsana che la società dell’epoca, avendo scambi commerciali con l’europa, contagia probabilmente alcune scuole filosofiche Greche da cui si spiegherebbero alcune loro somiglianze con quelle indiane.
Gli Yoga Sutra scritti da Patanjali si innestano quindi nella filosofia dei sistemi Darsana e può essere considerato il sistema pratico per realizzare quanto affermato dal Samkhya sebbene vi siano alcune sfumature che ne differenziano il contenuto.
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Differenze tra Yin e Yang Yoga
La maggior parte delle forme di yoga oggi pratiche sono dinamiche, attive, disegnate per lavorare solo metà del nostro corpo: la parte muscolare, ossia i tessuti Yang. Lo Yin Yoga ci permette di lavorare con l’altra metà, i profondi tessuti Yin, ossia legamenti, articolazioni, la fascia e persino le nostre ossa.
Tutti i nostri tessuti sono importanti e devono essere esercitati affinché noi possiamo ottenere il miglior beneficio in termini di salute e vitalità.
Ma si possono esercitare le nostre articolazioni? Non è forse pericoloso? Sì e no. Dipende da come questo esercizio viene fatto: possiamo allenare le nostre articolazioni in modo sicuro se però lo facciamo in modo intelligente.
Se questo lavoro viene fatto in modo errato possiamo senz’altro fare danno al nostro corpo ma qualsiasi forma di esercizio in realtà se fatta in modo errato potrebbe danneggiarci.
Sono molti i benefici che possono derivare da una corretta pratica dello Yoga: possono essere benefici fisici, mentali, emotivi, energetici, spirituali. I benefici che possiamo ottenere dipendono molto dalla nostra intenzione quando pratichiamo.
Come noi pratichiamo è tanto importante quanto cosa pratichiamo.
Esiste un aspetto Yin della nostra vita e un aspetto Yang.
Allo stesso modo esiste un modo Yin di Praticare Yoga e un modo Yang.
Praticare nella modalità Yin vuol dire fare particolare attenzione a concetti come cedere, accettare, permettere, nutrire.
Anche in una pratica Yang in cui si suda molto possiamo adottare una sensibilità e una ricettività propria dello stile Yin che ci aiuterà a vivere lo Yoga in modo molto più completo e profondo.
Alcuni studenti trovano inizialmente questo stile di yoga noioso, passivo, o troppo dolce, ma presto scoprono che può essere una pratica sfidante, aspetto dovuto soprattutto al tempo di mantenimento delle posizioni. Lo Yin yoga è semplice, ma semplice non vuol dire facile. Si può rimanere in una posizione da pochi minuti anche fino a 20 o più.
Gli stili di Yang Yoga generalmente stimolano le fibre e le cellule dei muscoli con movimenti ritmici e ripetitivi. Al contrario, i tessuti Yin, essendo più secchi e molto meno elastici, potrebbero essere danneggiati se sollecitati allo stesso modo. Si può dire che per questo genere di tessuti è meglio che vengano applicate forze più gentili e per un periodo più lungo di tempo affinché possano cedere, sentire la sollecitazione e rispondere alla stessa adeguatamente.
Le nostre articolazioni possono essere viste semplicemente come spazi tra le ossa nei quali è possibile il movimento.
Gli stabilizzatori delle articolazioni sono i legamenti, i muscoli e i tendini che collegano le ossa assieme tra di loro. Generalmente uno dei compiti dei muscoli è proteggere le articolazioni. Infatti se c’è troppa sollecitazione nell’articolazione è il muscolo che si danneggerà prima, poi i legamenti, e infine l’articolazione. Da questo punto di vista lo Yang Yoga per come è strutturato non è fatto per allenare l’articolazione ed è per questo che è così importante allineare correttamente il corpo per entrare nelle varie posizioni.
Lo Yin nello Yang
Una cosa interessante che è riscontrabile nel simbolo del Tao è che all’interno dello Yang è contenuto un punto Yin e all’interno dello Yin è contenuto un punto Yang. Allo stesso modo all’interno dei muscoli che sono Yang permea la fascia che come una rete capillare collega e dà struttura ai tessuti mantenendoli nella posizione dove sono e rivestendo anche i singoli gruppi di cellule. Si può dire che circa il 30% di quello che noi chiamiamo muscoli è in realtà fascia ed è proprio la fascia all’interno dei nostri muscoli che determina l’ampiezza del movimento mentre sono le cellule che compongono le fibre stesse che ne determinano la forza sviluppata con la contrazione.
Se lo Yang Yoga è veramente ottimale per sviluppare la qualità di forza dei nostri muscoli sorprendentemente è solo una pratica Yin, ossia mantenere la posa per un tempo più lungo, che aiuta in modo profondo ed efficace ad aumentare l’ampiezza del movimento.
Lo Yang nello Yin
All’interno dei nostri tessuti Yin possiamo trovare anche elementi Yang. Nella fascia e nei legamenti ci sono fibre che si contraggono esattamente come accade all’interno dei nostri muscoli. Troviamo fibre elastiche chiamate elastine: i nostri tessuti connettivi possono contrarsi e accorciarsi.
La vita ed i suoi periodi Yin e Yang
Fisiologicamente, attraverso la nostra pratica dello Yoga, mettiamo le basi alla nostra stabilità e alla nostra mobilità. Se osserviamo ad esempio l’arco della nostra vita e il nostro invecchiamento, che può accadere più velocemente o più lentamente, notiamo che tutto comincia in modo assolutamente Yang: da infanti noi abbiamo la mobilità, le articolazioni sono notevolmente mobili, ma non abbiamo la stabilità. Crescendo lentamente ci irrigidiamo e diventiamo lentamente più Yin: la stabilità arriva con l’avanzare dell’età.
Da ragazzi non abbiamo bisogno di ulteriore mobilità (ossia di rendere più Yang ciò che è Yin). La nostra parte Yin (stabile, rigida, ferma, piantata) è invero alquanto mancante. Al contrario abbiamo bisogno di ottenere più stabilità (rigidità-Yin) e quindi abbiamo bisogno di lavorare sulla parte Yin di ciò che è Yang, ossia sui nostri muscoli, per renderli più stabili, forti, spessi, ed aiutando quindi attraverso i muscoli le articolazioni rinforzandole e proteggendole.
Quindi esiste un tempo Yang della nostra vita nel quale abbisogniamo forme di esercizio apposite, ed esiste un tempo Yin della nostra vita nel quale per non perdere la mobilità o riguadagnare la mobilità persa (a livello dell’articolazione o della fascia) abbiamo bisogno di esercizi Yin, ossia che aiutino le articolazioni semisaldate o bloccate a sciogliersi. Senza un particolare esercizio corriamo il rischio di diventare sempre più rigidi con l’invecchiamento perdendo in breve tempo gran parte della mobilità originale delle nostre articolazioni.
Le forme di esercizio adeguate
Tutte le forme di esercizio hanno in comune due caratteristiche:
Il problema della nostra società moderna è che sollecita molto il nostro sistema ma ci permette di prenderci poco tempo per la seconda fase e non meno importante che è quella di riposo. Noi abbiamo un grande bisogno di sollecitare il corpo, i muscoli, la mente ma abbiamo enorme bisogno anche di lasciare che il corpo, i muscoli e la mente si riposino.
C’è uno specifico bilanciamento Yin/Yang che conduce allo stato di benessere, troppo Yin o troppo Yang non vanno bene in nessun caso, gli eccessi non portano ad uno sviluppo armonico e salutare del nostro corpo.
Per non danneggiare i nostri tessuti occorre prestare particolare attenzione ad applicare uno sforzo Yang ai tessuti Yang e uno sforzo Yin ai tessuti Yin. Noi contraiamo i nostri muscoli per proteggere le articolazioni e rilassiamo i nostri muscoli per sollecitare ed esercitare le nostre articolazioni.
FILOSOFIA E HATHA YOGA
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Arrivare a fine giornata.
Risolvere quel problema.
Risolvere un altro problema.
Risolvere un problema dietro l’altro.
La vita è un problema.
La vita è un problema?
E’ questo il nostro modo di vivere?
Vivere la vita come un problema da risolvere?
E risolto un problema ne affrontiamo un altro?
Che messaggio inconscio arriva alle nostre cellule?
La gioia di vivere?
O la pesantezza della vita?
Il nostro corpo, le nostre cellule, la nostra anima…saranno contente di Esserci?
La malattia e infine la morte potrebbero non essere allora problemi, non sono loro il problema.
Potrebbero essere la soluzione migliore che libera definitivamente dallo stress del lavoro, o da una vita sofferta, trascorsa a risolvere problemi. Ci pensano le nostre cellule a scegliere per noi, dopo infiniti messaggi ricevuti, anno dopo anno, mese dopo mese, settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, che la vita è dura, è un problema, è uno stress.
E’ possibile fare ciò che si fa ma vedendo il bicchiere mezzo pieno anziché mezzovuoto?
E’ possibile risolvere problemi col sorriso?
Perché le difficoltà della vita non sono erbe estirpabili, rimarranno sempre.
Come allora non percepirle come problemi da risolvere?
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Spesso nello Yoga si sente parlare di accettazione.
Di non opporre resistenza alla vita, accettare quel che viene senza desiderare cambiarlo.
Lasciar andare.
Conveniamo tutti che accettare di essersi svegliati in una giornata di pioggia, di essersi sporcati la camicia, di trovare traffico o di dover rialzarsi dopo una sconfitta qualsiasi non è particolarmente difficile.
Ce la si può fare (alcuni con fatica ma ce la fanno)!!
Quando il lato più difficile della vita invece bussa alla tua porta, la situazione è diversa.
Nel lutto, nella malattia, accettare quel che viene dalla vita non è facile.
Tuttavia l’esercizio comincia proprio nella quotidianità: è nelle piccolezze e nei leggeri disagi di ogni giorno che ci si prepara a vivere anche i momenti più difficili (e in un certo verso il lavoro dello yoga aiuta proprio in questo).
Credo però che il termine accettare non aiuti a capire bene cosa si intenda veramente.
La sfumatura linguistica riportata anche nel dizionario associa all’accettare il “sopportare un evento negativo”.
Ma “sopportare” non è “accettare”.
Accettare è non creare resistenza alcuna, lasciar andare la resistenza.
Accettare non è viversi la vita con reticenza, rimuginando su ciò che ci accade, desiderando essere altrove o continuando a ripetersi che si vorrebbe essere in un altro posto.
La predisposizione d’animo che meglio descrive ciò che il vero accettare porta con sé sta ancora nel verbo “scegliere”.
Accettare un evento veramente vuol dire arrivare a sceglierlo dentro, scegliere di vivere ciò che la vita propone. Perché accettare non vuol dire vivere con resistenza ciò che la vita ti mette davanti, non vuol dire voler vivere altro e sopportare nel frattempo la nostra sofferta esistenza. La profonda accettazione include la scelta vera e consapevole, dire di sì alla vita, accettare la sofferenza, accoglierla, dire sì anche ai momenti più difficili come se li avessimo cercati, scelti.
E non è una scelta mentale.
Non riuscirete a convincervi con la mente.
E’ una scelta viscerale.
Va fatta con la pancia.
E’ un salto nel vuoto, un affidarsi alla vita in modo totale.
E’ scevra dalla paura di soffrire e pregna della consapevolezza che non ci siamo incarnati in questa vita per godercela, per spassarcela, ma per esperire.
Per vivere delle esperienze.
Giudicare le esperienze e categorizzarle in positive e negative è un brutto vizio.
La morale cattolica dell’“essere felici” è facilmente fraintendibile. Si rischia di crescere con l’idea che dobbiamo essere felici e che la sofferenza vada evitata come la peste.
Mio marito ha una malattia? Scappo con un altro uomo. Mia moglie soffre? Scappo con un’altra donna. Il mio amico soffre? Non lo chiamo più.
Inoltre vorrei farvi riflettere: opporsi che beneficio può portare?
Se ti opponi alla pioggia cesserà mai di scendere?
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Lo Yoga è infinito.
Deve esserlo per forza, avesse una fine ci sarebbe allora un qualcosa da raggiungere, una mèta, un arrivo, un momento in cui possiamo dire “Ecco, sono arrivato”.
Esisterebbe uno scopo ultimo, un “gran finale” a cui aspirare per tutto il corso della nostra vita, qualcosa che “noi” possiamo conquistare, qualcosa che la nostra “persona” può davvero realizzare.
Fosse così esisterebbe il senso di incompiutezza, la frustrazione di non riuscire a far questo o quello. Come possiamo sentirci frustrati per non ottenere questo o quello a livello materiale, la casa dei nostri sogni o il lavoro ideale, così lo stesso meccanismo verrebbe riproposto pari pari a livello spirituale.
Possibile?
L’altro giorno leggo una frase:” Maybe not in this life”
Quanta libertà nel dirsi così! Magari non in questa vita. Magari non raggiungerò quell’asana o chissà quale realizzazione spirituale in questa vita, si accetta la cosa, e fine.
In molti dicono: Pratica! Realizzati! Illuminati! Studia! Fai! Non hai tempo. Chi ha tempo non aspetti tempo. Fai oggi quello che potresti fare domani! Fai! Fai! Pratica oggi! La vita è breve.
La vita è breve.
La vita è breve?
Sicuramente se continuo a fare senza averla gustata vola in un lampo.
Eh, certo. Facessi così vuol dire che sono sempre da un’altra parte con la testa.
Sempre nel dopo, sempre nel dover fare qualcosa per…
Devo praticare per…
Devo realizzarmi…
Non ho tempo…
Non ho tempo?
Davvero non ne ho?
Non ho tempo da perdere inseguendo l’idea della realizzazione.
Non ho certamente tempo da perdere inseguendo l’idea dell’illuminazione.
Allora, quando butto via questa idea, per quanto grandiosa sembri, per quanto amaro in bocca resti, per quanto in antitesi sembri questo gesto con tutto quello che viene insegnato…
Ecco, quando butto via questa idea la mente rimane con un’idea in meno, meno aspettative, ansie, meno cose da dover fare e più SPAZIO.
Spazio per accorgermi del Qui ed Ora.
Di cosa sto facendo.
Maybe not in this life.
Fa lo stesso se non mi illuminerò, fa lo stesso se non realizzerò nulla.
Fa lo stesso.
Maybe not in this life.
Poi, la pace.
La tranquillità di poterci mettere degli anni.
La tranquillità di avere tempo.
Ma non il tempo di fare qualcosa PER raggiungere un obiettivo, ma il tempo di fare qualcosa per il solo gusto di farlo. Abbiamo ancora del tempo che possiamo usare per gustare i momenti presenti, possiamo stare nel presente, stare nel tempo, stare ora, qui, adesso.
E’ questo il tempo che abbiamo.
E’ questo il tempo che dimentichiamo quando siamo intenti nell’idea di raggiungere qualcosa.
Funziona proprio all’incontrario.
Quando siamo nell’idea di raggiungere qualcosa perché sentiamo di avere poco tempo stiamo perdendo l’opportunità unica di vivere quell’istante. Perdiamo l’attimo, perdiamo il tempo, perdiamo l’adesso.
Se senti questo, tutto si illumina.
Sparisce l’attrito del “devo praticare”.
Ci si approccia allora alla pratica come un regalo, come una coccola che ci si fa, che ci si dona semplicemente perché ne si ha voglia, ne si sente il desiderio, si ha voglia di riconnettersi, ricongiungersi, sentire di nuovo il cuore che si scioglie nel grazie alla vita, nel grazie di questo istante di vita che ci è permesso di vivere.
Praticare diventa riconnessione con il nostro corpo, con il nostro respiro, il nostro battito cardiaco.
Diventa scoperta, curiosità, fanciullezza.
Diventa stare con l’adesso, con quello che c’è e apprezzarlo come fosse un tramonto.
E tutto, come per magia, diventa sacro.
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