Yoga Sutra di Patanjali

Yoga Sutra di Patanjali: essenza del Raja Yoga o Yoga Regale

Introduzione e panoramica

Questo darsana è composto da 196 aforismi divisi in 4 libri. Gli aforismi arrivano nella loro versione definitiva nel V-VI secolo d.C. ma sono la riorganizzazione di materiale più antico e risalente al II-III secolo a.C.  Gli Yoga sutra sono attribuiti a Patanjali ma sulla sua figura si sa poco. Ci sono diverse opere che recano il suo nome ma non si sa se sia sempre lui e alcuni credono che ci siano state diverse persone a portare il suo nome. Come accade per tutti o la maggioranza dei testi indiani non sono meno importanti i commentari. Nel corso dei secoli diverse persone hanno interpretato i sutra e secondo la loro realizzazione e conoscenza hanno tentato di declinarli in un linguaggio più semplice e più vicino al lettore.

L’importanza dei commentari

Tra i commentari antichi agli Yoga Sutra più importanti troviamo:

  • Yogabhashya di Vyasa (stesso autore del Mahabharata)

Nei commentari medievali abbiamo degni di menzione

  • Tattvavaiśāradī di Vacaspati Misra (stesso autore del Kaumudi – X secolo d.C.)
  • Raja-Martanda di Re Bhoja (XI sec. d.C.)

Mentre i commentatori moderni più importanti sono:

  • Vivekananda, Prabhavananda, Satchidananda, Iyengar, Kriyananda…

Questi sono solo alcuni dei commentari ai sutra esistenti, redatti da persone o praticanti che si sono apprestati a dare la loro chiave di lettura del testo. E’ importante avvicinarsi quindi al testo con la consapevolezza che si presta a diverse interpretazioni e significati e che, seppur trattando dello stesso argomento, posso variare anche molto nella forma e talvolta anche nella sostanza.

Il sanscrito inoltre, lingua in cui i sutra sono stati scritti, è una lingua che si presta a diverse interpretazioni. Infatti alcuni termini assumono significati diversi a seconda del contesto o della profondità del Praticante di coglierne l’essenza. La scelta che l’autore fece nell’usare un termine piuttosto di un altro e del commentatore poi di tradurlo con un termine piuttosto che un altro e di interpretare successivamente quanto tradotto rende l’idea della complessità dell’operazione a livello linguistico.

A tutto questo si aggiunge il fatto che gli yoga sutra di Patanjali trattano in modo dettagliato di temi per i quali ci troviamo presumibilmente sguarniti in fatto di vocaboli. Se è semplice mettersi d’accordo su quale vocabolo usare per indicare una penna e poca confusione si può fare nella sua traduzione in altre lingue, altra cosa è trovare i termini giusti quando si parla di Dio, di anima, di illuminazione, di stati realizzativi e di assorbimento progressivi durante la meditazione stessa.

Risalire quindi a ciò che intendeva Patanjali quando li scrisse è tutt’altro che impresa facile e la trattazione dell’argomento o la sua lettura qui esposta quindi deve imprescindibilmente essere intrapresa con la consapevolezza che non si vuole in nessun modo farsi portatori di un messaggio o di una verità che si ritiene acquisita. Verrà invece esposto solo una sfumatura di quanto si può trovare sull’argomento, a volte citando alcuni autori altre interpretando gli stessi commentari secondo la conoscenza acquisita attraverso lo studio e la pratica personale.

Presentazione dei 4 libri

Cominciamo la trattazione con una panoramica sui quattro libri:

1. Libro dell’enstasi – delinea il processo dello Yoga e i diversi gradi

2. Libro del metodo – individua i vizi originali e traccia il celebre cammino in 8 stadi (ashtanga Yoga)

3. Libro delle facoltà soprannaturali – si esamina la concentrazione Yogica e i suoi effetti

4. Libro dell’isolamento –  si analizza la natura dei condizionamenti subcoscienti e l’isolamento del Sè conseguente alla loro soppressione per mezzo dello Yoga.  

Lo yoga di oggi non è quello delle origini

Di questi quattro libri, quando si parla degli yoga sutra di Patanjali quello che tutti, o i più, conoscono dell’argomento sono gli 8 anga dello Yoga presentati al sutra 29 del secondo libro: Yama-niyama-asana-pranayama-pratyahara-dharana-dhyana-samadhi e questi “anga” o membri dello yoga sono più o meno approfonditi dal sutra 29 al sutra 51 del secondo libro.

Nel senso che quello che si conosce solitamente dello Yoga, ossia i primi 4 anga, sono trattati in 22 sutra su 196.

Le asana vengono trattate in 3 soli sutra, il pranayama in altri 3.

Lo ridico: le asana, le posizioni alle quali noi diamo tutta questa importanza, sono trattate in soli 3 sutra su 196 e non vengono descritte negli allineamenti come accade invece nei manuali d’oggi alle quali viene destinata la porzione più ampia del testo.

E questo ragionamento terra terra fa capire che per Patanjali praticare le posizioni (asana) dello yoga non è “Yoga” ma una parte (3/196) di quanto lui ci ha detto/trasmesso sull’argomento. Questo è bastante per dire che se nei corsi di yoga, che si avvalgono di tale nome, venisse intrapresa davvero la via dello Yoga di Patanjali, probabilmente gli amanti delle asana abbandonerebbero la Pratica e i corsi si svuoterebbero nel giro di 2 settimane massimo. Inoltre lo Yoga proposto da Patanjali essendo principalmente psichico-introspettivo-meditativo non troverebbe vasto seguito nel pubblico occidentale troppo abituato ad un sapere fatto di soli assaggi, restio allo studio approfondito e costante di testi di difficile comprensione e amanti invece di pratiche superficiali prettamente fisiche che invece di minare la natura dell’Ego per farlo saltare del tutto lo corteggiano per compiacerlo ed esaltarlo.  

Sankhya Karika e Yoga Sutra di Patanjali

Si è già fatta menzione nell’articolo sul Sankhya che gli Yoga sutra sono da considerarsi come la parte Pratica, il metodo per realizzare quanto descritto dal sistema Sankhya. Troviamo quindi negli Yoga Sutra (12-26, I) un’altra esposizione dei temi cari trattati dalla Sankhya Karika ossia si parla di:

  • Karma e ciclo rinascite (ripresa poi in modo ampio e diffuso anche dal libro IV)
  • Impressioni, merito e demerito
  • i 3 guna: Sattva, Rajas e Tamas
  • Prakriti e Purusa
  • L’ignoranza
  • L’isolamento
  • La conoscenza discriminativa imperturbata

Nel libro dell’enstasi (samadhi, libro primo) si tratta delle funzioni mentali che come spiega Re Bhoja sono:

  1. Conoscenza valida
  2. Errore
  3. Astrazione
  4. Sonno
  5. Memoria

a questo punto non possiamo non notare le somiglianze con il Sankhya e con il Nyaya da cui sembra riportare l’analisi sul funzionamento mentale. Certo è che gli Yoga Sutra non perdono occasione di ribadire (12, I) come le funzioni mentali vengano inibite, ossia con l’esercizio e con l’impassibilità (termine già incontrato quando abbiamo parlato del Sankhya). Per esercizio si intende lo sforzo di conseguire la stabilità in cui la mente riposa nella sua essenza libera dalle funzioni mentali.

Differenti stati mentali

I differenti stati mentali Re Bhoja li riconduce sempre a cinque tipi ossia

  1. Irrequieto – eccesso di Rajas
  2. Ottenebrato – eccesso di Tamas
  3. Distratto – eccesso di Sattva
  4. Unintenzionale – concentrazione fine su un oggetto
  5. Inibito – tutte le funzioni si dissolvono

Se i primi tre li definisce non adatti allo Yoga è il quarto e il quinto che rappresentano l’enstasi (Samadhi) con seme e senza seme (come spiegato più avanti).

Dal Sankhya allo Yoga Sutra

stadi evolutivi dei guna Se il Sankhya ci ha parlato di un cammino a ritroso attraverso l’indagine per risalire dal particolare all’indifferenziato, per arrivare alla Bhuddi e da là il salto per ritornare al Purusa (ossia, permettere al Purusa di specchiarsi nella Bhuddi ormai svuotata da altri oggetti in modo che si riconosca tale) ecco che lo yoga sutra riprende tale percorso parlando degli attributi dei guna.

Quindi il percorso del Sankhya, letto attraverso gli Yoga Sutra, verrebbe a completarsi come un percorso a ritroso nelle qualità dei guna che da una qualità più definita e particolare (visesa) si passa alla realizzazione delle qualità non particolari (avisesa) per astrarsi ad un linguaggio simbolico dei lingamatra. Dal lingamatra c’è il salto per realizzare la sostanza originale in cui i tre guna coesistono in perfetto equilibrio tra solo, ossia mula prakrti o Pradhana. Se lo Yogi riesce nel suo slancio meditativo a compiere l’ulteriore salto verso la liberazione o kaivalya raggiungerà lo stato di Purusa Tattva altrimenti resterà un Prakrti-laya.

Enstasi – Samadhi

Con la parola “enstasi” Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, nel suo classico studio “Tecniche dello Yoga”, ha inteso tradurre il termine sanscrito “samadhi. Samadhi significa, secondo lo stesso Eliade, “unione, totalità; assorbimento in qualcosa, concentrazione totale dello spirito, congiunzione”. La traduzione “enstasi” è in chiaro contrasto con la traduzione “estasi”, ossia ek-stasis, uscire fuori, preferita dalla tradizione mistica occidentale da Plotino in poi.

Si intende porre l’accento proprio sul fatto che lo yogin, al culmine della concentrazione interiore, dopo aver portato a compimento la disciplina del corpo e della mente, si trova sì fuori di sé, del suo piccolo sé identificato con le esperienze e con le memorie corporee, ma in realtà questa uscita e questa espansione accadono all’interno della sua stessa coscienza. Chit“, la coscienza, appare allora come un’unità indistinta con “sat“, l’essere, e “ananda“, la beatitudine. “Satchitananda“, lo stato dell’essere umano rivelato dal samadhi, è certamente una delle più belle espressioni tramandate dalle Upanishad per definire l’esperienza del divino. Si può pensare di avvicinarsi a una tale esperienza solo imparando a calmare il corpo, il respiro e la mente, per lasciar rifulgere la coscienza di luce propria.

Libro dell’enstasi, discussione sui primi due versi

verso 1

Ora l’insegnamento della disciplina dello Yoga atha yoga anusasanam

In questo primo verso emerge chiara l’idea dello yoga fatto nel presente, nel qui ed ora, dato dalla parola hatha che significa “adesso”.  Da qui l’importanza di stare nel presente con la mente. Troppi sono i praticanti che credendo di fare yoga si perdono invece nei loro pensieri.

Quella è ginnastica! Per quanto bella, se non c’è il lavoro della mente rimane una ginnastica. Lo yoga punta moltissimo ad uno stato di attenzione e osservazione continua che necessita quindi di un silenzio mentale, prerequisito per un verso ascolto e osservazione consapevole. Diventa fondamentale quindi ritrovare un centro che ci porti ad avere una certa stabilità. Anche la parola disciplina emerge forte da questo sutra. Si rimanda alla semantica, ossia al termine disciplina che viene da discepolo.

La disciplina non ha alcun connotato negativo o di rigidità, quale invece è consono attribuire nel mondo occidentale. La disciplina spiega il “come fare” ad un discepolo che ascolta ai piedi del maestro. L’ascolto diventa quindi caratteristica fondamentale per poter imparare e deve necessariamente essere un ascolto “vuoto”, nel senso che occorre creare un vuoto nella mente per poter veramente capire cosa ci sta dicendo chi ci insegna. L’ascolto attivo quindi presuppone un lavoro di controllo del pensiero meccanico che tenderebbe meccanicamente per analogie a prevedere cosa vuole comunicarci chi ci sta di fronte. Lo yoga quindi ci spinge ad uscire dalla meccanicità di pensiero, emozione e corpo. Proprio attraverso le posizioni è necessario adattare il corpo alle posizioni e non le posizioni al corpo.  

Verso 2

citta vrtti nirodah Lo yoga è la sospensione delle modificazioni della mente

Cos’è citta? Cosa sono le vritti? Possiamo immaginare citta come l’oceano e le Vritti le onde. Le Vritti sono fatte della stessa sostanza dell’oceano. Continuano ad arrivare, cambiare, mutare. Increspano la superficie del mare ma non sono diverse dalla sostanza di Citta. Non esiste un esatto equivalente del termine citta nelle lingue occidentali. Molti commentatori hanno tradotto citta con mente, ma ciò non è esatto. L’equivalente sanscrito che più si avvicina al nostro mente è manas

Citta

Cos’è citta?

  • E’ la sostanza mentale in cui si condensa la Pura Coscienza – Cit
  • Il pensiero individuale e formale
  • La facoltà che dà forma alle idee e le associa tra loro,
  • Una delle quattro facoltà dell’organo interno o antahkarana (oltre a buddhi, ahamkara e manas)
  • Ricettacolo di tutti i ricordi o impressioni e di tutte le tendenze o semi (seme) mentali (samskara).

Citta Vritti Nirodah verrà a significare quindi: assenza di modificazioni nella sostanza mentale, assenza di oggetti-dati nella mente, estinzione del contenuto mentale ed immaginativo, stato di consapevolezza senza contenuto vissuto a livello di veglia. citta vrtti nirodah

Nell’immagine possiamo immaginare il grafico in azzurro come i pensieri che costantemente abbiamo, in forma di immagini o parole, consapevoli o meno, nella nostra mente e possiamo chiamare queste onde Vritti. Ora, se ci pensiamo, nel momento in cui ci rendiamo consapevoli di avere una mente piena di pensieri possiamo anche asserire che la mente e il suo stato mentale è “visto”.

In quanto visto diventa oggetto del verbo vedere e quindi non è il soggetto che vede.

Chi è il soggetto quindi?

Chi è che vede?

citta vrtti nirodah

Mano a mano che le vritti diminuiscono di numero e la mente si placa l’Essere (SAT), che fino ad un attimo prima era identificato con le vritti (pensava di essere le Vritti) attraverso la consapevolezza (CIT) delle vritti stesse, prende atto che lui continua ad esistere nonostante la mente sia vuota, seppur ad intermittenza.

Comincia ad assaporare, ad immaginare, a rendersi conto che lui è altro da Citta e dalle Vritti.  

citta vrtti nirodah

Quando si raggiunge lo stato di Nirodah ecco che l’essere non ha più alcun dubbio, la sua consapevolezza finalmente svuotata da ogni contenuto può rivolgersi all’interno e scoprire la sua vera natura, come i raggi solari che scoprono la loro provenienza dal sole.

In questo modo si realizza lo stato di Sat Cit Ananda, o Sacchidananda: l’essere che si riconosce nella sua consapevolezza in uno stato di beatitudine.

Lo scopo dello Yoga

A questo punto non possiamo che parlare dello scopo dello yoga, che altro non è che la realizzazione dell’Enstasi attraverso l’attenuazione dei vizi capitali, ossia la Liberazione dal dolore e dalla sofferenza della vita umana grazie all’Isolamento (Purusa che si isola dalla Prakriti).

Scopo dello Yoga

I vizi capitali e il Kriya Yoga

A questo punto non possiamo che delineare quanto segue. Lo yoga che consta dell’ottuplice sentiero, anche conosciuto come Ashtanga Yoga (ben diverso da ciò che oggi viene praticato sotto questo nome) include e contiene le Pratiche del Kriya Yoga detto anche Yoga Pratico.

Lo Yoga Pratico (Kriya Yoga) è:

1.Tapas (ascesi, eliminazione delle impurità dell’organismo fisico e mentale con il mantenimento di corrette abitudini nel sonno, nell’esercizio, nell’alimentazione, nel lavoro, nel rilassamento, ecc., austerità, persistenza, autodisciplina, pratiche di digiuno, costanza nel seguire la sadhana…) 2.Svadhyaya (preghiera, studio delle sacre scritture, lo studio di sé, autoanalisi introspettiva, recitazione sommessa del mantra OM…)

3.Ishvara Pranidhana (dedizione totale al Signore, offerta di tutte le azioni al signore) Lo yoga Pratico è praticabile da tutti, ed è per Patanjali il primo gradino che aiuta e prepara al cammino Yogico vero e proprio. Tutte queste pratiche hanno lo scopo di attenuare  i 5 klesa o vizi capitali, e lo fanno assieme a meditazione e conoscenza discriminativa (già vista nell’articolo sul Sankhya e quindi non si ripeterà cosa si intende).

Quali sono i vizi capitali?

  • Ignoranza: l’opinione che ritiene permanente, puro, piacevole, pertinente al Sé, l’impermanente, l’impuro, lo spiacevole, l’estraneo dal Sè
  • Illusione della personalità: è confondere Purusa con Prakriti
  • Passione: è la bramosia che si accompagna alla rievocazione del piacere in chi lo ha conosciuto e che si esplica nella sete di perseguirlo
  • Avversione: è l’ira piena di deplorazione che si accompagna alla rievocazione del dolore in chi lo ha provato e che si esplica nell’intento di evitarlo
  • Ostinazione vitale: deriva dalla memoria delle esperienze di morte nelle vite passate. E’ l’attaccamento al proprio corpo e si esprime nell’anelito a non esserne mai disgiunti

Riassumendo: come liberarsi dai vizi originali?

  1. Con lo Yoga Pratico (Kriya) si sottrae la mente alla loro influenza
  2. Con la Conoscenza discriminativa sono ridotti allo stato di semi riarsi (non germinano più – detti anche vizi latenti) «tutto non è che dolore per colui che discrimina infatti ogni gioia è in realtà dolorosa, come un cibo avvelenato, squisito sulle prime ma da ultimo fatale»
  3. Con la Meditazione la mente si riassorbe nel suo principio e i vizi sono dissolti

A proposito di dolore

(Yoga sutra II,16-17 riporto per integrale il bellissimo commento di Swami Venkatesananda) “Eppure, non tutto è perduto. Poichè il dolore che non è ancora “arrivato”, che non è ancora giunto sul campo dell’esperienza, può essere evitato; l’infelicità che non ci è ancora giunta può essere evitata, evitando il contatto psichico con essa.”

L’infelicità che ancora non ti ha raggiunto può essere evitata. Questo è un insegnamento sensazionale che ci viene dato; non dire che, siccome sei infelice e coinvolto in questa situazione così complicata, devi continuare ad invitare la sofferenza per tutta la vita. Vi sono persone che vanno a battere la testa contro il muro quando hanno un’emicrania. Ma quel gesto aggrava il mal di testa e quando non lo fanno più, la forma aggravata di mal di testa se ne va e loro fingono che l’emicrania sia scomparsa.

Non è questo che cerchiamo, cerchiamo una maniera con la quale possiamo intelligentemente trattare con la sofferenza che è già sorta nella nostra vita e un modo per fermare quella che non ci è ancora giunta. Questo, lo yogi dice, è possibile. Finché spingi via il dolore, lo stai toccando. Perché vuoi toccare qualcosa che, in ogni caso, si sta allontanando da te? E’ arrivato da qualche parte verso di te e, lasciato a se stesso, allo stesso modo si allontanerà. Lascialo stare, ma utilizza quella situazione d’infelicità in cui ti puoi trovare, per guardare dentro e scoprire il meccanismo che ti ha intrappolato in quella sofferenza. Non vuol dire che devi accogliere con gioia la sofferenza, che devi accettarla o sopportarla (tutti questi discorsi sono irrilevanti alla nostra discussione).

Devi cercare di eliminare il dolore senza uno sforzo. Come puoi farlo? Restando tranquillo ed esaminando l’intera dinamica della sofferenza, del dolore. Osservi direttamente il dolore – cosa completamente diversa dall’analisi. Se analizzi il dolore, questo si moltiplica. Senza analizzare, senza intellettualizzare o creare dei concetti e delle immagini della sofferenza, se osservi direttamente questo fenomeno del dolore psicologico, lo vedi come un’esperienza. È soltanto una divisione psicologica interiore (che uno presume esista) che crea un soggetto dell’esperienza separato dall’esperienza stessa; se non si crea quella divisione psicologica, di conseguenza non c’è contatto psicologico e quindi non c’è esperienza di dolore, di tristezza, come tale.

Ma, nel processo in cui gli occhi vedono, quello che vede (il senso dell’ego) sorge e qualcosa salta su e dice, “io vedo”. Nel momento in cui l’«io» (il soggetto) è sorto in te, questo creerà un oggetto. Sto guardando questa sala intera, quando all’improvviso: “Io vedo lui”. Quest’assunzione di un ego s’inserisce attraverso la pura sensazione di vedere, e suggerisce, “io vedo lui”. La vista vede, ma in quella hai creato un’immagine, un pensiero con una forma, e da qui sorgono tutti i problemi. Sorge prima l’io, poi la vista e poi il ‘tu’? Oppure tu sei già lì, la vista accade e poi all’altro estremo sorge l’io? Qual è esattamente la verità riguardo la semplice esperienza del vedere? Quando questo vedere ha luogo, sorge prima l’io (quello che vede, l’osservatore, il soggetto) – o sorge prima l’oggetto? L’identità del soggetto è indipendente dal pensiero che sorge nel soggetto? L’identità dell’oggetto è una proiezione del soggetto? Sia il soggetto che l’oggetto dipendono dal predicato.

C’è una cosa sola, l’esperienza in se stessa. Quello che era semplicemente uno è in qualche modo stato concepito o percepito come trinità: è assurdo. Cos’è che ti fa vedere tutto questo? Avidyā.”  

L’ottuplice sentiero

ottuplice sentiero Prima di cominciare la trattazione dell’ottuplice sentiero mi permetto una bellissima citazione che aiuta a capire appunto il “sentiero”. Semina un pensiero e raccoglierai un’azione, semina un’azione e raccoglierai un’abitudine, semina un’abitudine e raccoglierai un carattere semina un carattere e raccoglierai un destino ( Charles Reade – XIX Secolo )

Yama e Nyama

Questo sentiero comincia appunto col portare l’attenzione ai nostri comportamenti e la nostra relazione con il mondo che ci circonda. (yama e nyama ricordano un po’ i 10 comandamenti anche se le sfumature sono diverse) E le Yama con la quale si apre l’ottuplice sentiero sono appunto i divieti:

1.Ahimsa (mansuetudine, non violenza, considerazione verso tutti gli esseri viventi)

2.Satya (veracità, astenersi dal falso, corretta comunicazione attraverso la parola, gli scritti, i gesti, le azioni)

3.Asteya (onestà, assenza di desiderio per le cose altrui, astenersi dal furto, non bramosia)

4.Brahmacharya (castità, non disperdere l’energia sessuale, moderazione in ogni azione)

5.Aparigraha (povertà, non cupidigia, assenza di desiderio di possesso)

Mentre le Nyama sono le prescrizioni:

1.Saucha (purezza, pulizia, vale a dire conservare il corpo e ciò che ci circonda in stato di pulizia e purezza)

2.Santosha (letizia, contentamento, l’appagamento, contentezza, o facoltà di sentirsi bene con ciò che si ha e ciò che non si ha, moderatezza)

3.Tapas (ascesi, eliminazione delle impurità dell’organismo fisico e mentale con il mantenimento di corrette abitudini nel sonno, nell’esercizio, nell’alimentazione, nel lavoro, nel rilassamento, ecc., austerità, persistenza, autodisciplina)

4.Svadhyaya (preghiera, recitazione mantra OM, studio delle sacre scritture, lo studio di sé, autoanalisi introspettiva)

5.Ishvara Pranidhana (dedizione totale al Signore, offerta al signore di ogni azione non desiderando i frutti delle stesse.)

A questo punto i Sutra definiscono Ishvara come uno spirito speciale, immune dai vizi originali e dal Karma. E’ onnisciente e non perfettibile. La parola che lo esprime è l’OM. L’OM è il principio, il mezzo e il fine di ogni cosa. La sacra sillaba è il Signore che dimora in ogni cosa. Si deve praticare, così dicono i sutra, la sua recitazione e la contemplazione del suo significato, in questo modo si può accedere alla conoscenza introspettiva e gli ostacoli scompaiono.

  • NB1: Si nota come in Ishvara Pranidhana siano contenuti i semi delle vie Bhakti e Karma marga.
  • NB2: Ricordo che Tapas, Svadhyaya e Ishvara Pranidhana sono i pilastri del Kriya Yoga.

 

L’OM, la sacra sillaba

(dal commentario di Claudio Biagi) Esso è il solo mantra privo di significato e quindi di aspettative, laddove in ogni altro vi è sempre una esplicita o implicita preghiera. Da questo punto di vista, praticamente tutte le preghiere di ogni religione hanno almeno una traccia di aspettativa o benevolenza da parte della Divinità. OM, o pranava è forse l’unica preghiera dove questo aspetto è del tutto assente.

OM non è altro che un suono o una lettera senza alcun significato particolare. Per questo diciamo che il pranava è la preghiera suprema. Il pranava è composto da tre suoni basici o lettere (matra): A-U-M. Il primo di questi è anche la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, e di molte altre lingue.

Il suono «A» è il primo fra i suoni emessi dalla laringe umana, avente forma definita e quindi rappresentabile da una lettera, senza alcuna modifica della cavità orale; per produrre il secondo suono, la cavità orale deve venir modificata: la «U» è la prima lettera dopo la «A» per la cui pronuncia sia necessario manipolare le labbra e la bocca; l’ultimo di questi suoni, lo «M», è anche l’ultimo suono che si possa produrre, dato che si ottiene tenendo la bocca chiusa. Con esso idealmente l’alfabeto ha fine.

Ha la caratteristica di poter continuare finchè la capacità polmonare lo consente. Essendo anche un suono nasale, esso ha una superiorità rispetto ai suoni labiali, dentali e palatali, che richiedono la partecipazione della lingua. Il pranava AUM contiene quindi tutte le lettere e i suoni di ogni alfabeto.

E’ rappresentato da un unico simbolo e si dice che esso incorpori anche tutti i linguaggi del mondo. Molte tradizioni religiose sostengono che la prima manifestazione della Divinità sia stata in forma di suono o verbo. Probabilmente, gli antichi Rsi, meditando su questo soggetto, giunsero alla conclusione che l’unico suono o verbo capace di soddisfare logicamente e simbolicamente quella caratteristica (di comprendere tutti i linguaggi e suoni umani – cioè non gutturali e non rappresentabili – del mondo) debba essere l’AUM .

L’ AUM (OM) va dunque concepito come la manifestazione della Divinità in forma di suono, e quindi come un mezzo diretto attraverso il quale la Divinità può essere compresa e contattata dirattamente. Come ciò possa avvenire, è spiegato nel sutra seguente (I:28).

Così il japa o recitazione continua del pranava, agisce come una medicina sul citta, rimuovendone le impurità e rendendolo atto a procedere sul sentiero della realizzazione. Il pranavajapa in tal modo agisce come uno stampo o una forma per la mente, che le permetta di attingere gli stati più elevati della concentrazione. Nel pranavajapa, pertanto, si deve far sì che il citta assuma la forma del pranava stesso, diventi uno con esso.

Diversamente da tutti gli altri japa, pranava presenta la minor possibilità di distrazione della mente, in quanto il praticante non deve riflettere su alcun significato ma soltanto lasciarsi assorbire dal suono.

Le lettere costituenti il pranava devono essere pronunciate molto lentamente una dopo l’altra, con la finale ‘M’ assotigliata e prolungata il più possibile fino a renderla inaudibile (ma senza che ciò provochi bisogno urgente di respirare). Dopodichè lo studente deve restare in un’apnea confortevole per qualche secondo. In tale stato di passività si è ricettivi alle più sottili vibrazione, e prima o poi, comincerà a farsi udire il pranava sorgente da una fonte mistica sconosciuta.  

Asana

Gli Yoga Sutra trattano delle asana ai sutra 46,47 e 48.

sutra 46 – sthira-sukham âsanam

La postura è stabile e agevole. L’âsana deve avere la doppia qualità di vigilanza e rilassamento. Si nota come non venga descritta l’asana! Ad ogni modo, la postura intesa da Patanjali non può che essere a sedere, tenuto conto che il suo scopo è quello di servire agli anga successivi, cioè al pranayama e alla meditazione.

Negli Yoga sutra di Patanjali manca una chiara affermazione che l’asana debba intendersi come postura a sedere, come mancano le istruzioni relative alla sua tecnica, tutte cose tradizionalmente ben note e adottate spontaneamente da ogni sadhaka. Probabilmente Patanjali ha ritenuto non necessario dilungarsi su questi dettagli, preferendo sottolineare le caratteristiche basiche di ogni asana a sedere.

Già la Bhagavad Gita (VI:11-13) e le Upanisad avevano spiegato che le gambe potevano essere sistemate in modi diversi, purchè la schiena ed il collo fossero mantenuti ben eretti, ma senza sforzo. Una tale postura può essere mantenuta a lungo nel modo più rilassato e allo stesso tempo con la mente sveglia e senza il rischio di perdere lucidità. In altre posizioni del corpo (distesi o in piedi) ciò non sarebbe altrettanto possibile.

sutra 47 – prayatna-saithilyânantya-samâpattibhyâm

Queste alcune traduzioni che si trovano:

  • (Ciò si ottiene) con il rilassamento dello sforzo e l’immedesimazione con l’infinito.
  • In virtù di un rilassarsi dello sforzo e della realizzazione di Ananta.
  • Queste qualità possono essere raggiunte riconoscendo e osservando le reazioni del corpo e della respirazione nelle diverse posture che fanno parte della pratica di asana. Una volta conosciute, queste reazioni possono essere controllate passo per passo.
  • Mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul “senza fine” (si domina una positura).
  • Con il rilassamento del corpo e la meditazione sull’ananta.
  • (E ciò è assicurato) quando si allenta lo sforzo (per mantenere la posizione) e quando la mente riflette la condizione dell’infinito.

Commento di C. Biagi riportato per intero: Il sutra menziona gli altri due requisiti essenziali di un asana. Durante il mantenimento della postura

1)egli deve compiere una consapevole diminuzione dell’attività muscolare, fino a sentirsi perfettamente rilassato in ogni parte del corpo. Ciò è detto prayatna-saithilya ed è facilmente ottenibile nelle posizioni usualmente adottate per la meditazione.

2)Deve fondere la sua mente con il principio di Ananta Il termine ananta significa letteralmente ‘’senza fine’’. E’ anche il nome dato al cobra mitologico dei purana, dalla lunghezza infinita, ritratto mentre sostiene il mondo sul cappuccio. Ma in quel termine c’è anche il senso basico di ‘’infinito’’. Ciò che intende Patanjali, in tale processo riguardante l’asana, è che si deve fondere la mente (samapatti) in qualcosa di infinitamente grande, come il cielo o l’oceano. In altre parole, il citta deve venir diretto verso qualcosa di infinito e un tentativo deve essere compiuto di lasciar sciogliere la mente in tale infinità e farla divenire una col tutto. Ciò è stato definito ‘’senso oceanico’’.

sutra 48 – tato dvandvânabhighâtah

  • Allora si è immuni dalle coppie di contrari.
  • Da questo, la non ostruzione da parte dei contrari.
  • Quando questi principi sono seguiti correttamente, la pratica di asana permetterà al praticante di sopportare e anche di minimizzare le influenze esterne sul corpo : età, clima, dieta e lavoro
  • Da ciò, la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti.
  • Con ciò si evitano i disturbi derivanti dalle coppie degli opposti.
  • In seguito cessa il disagio provocato dalle coppie degli estremi.

Ciò avviene perché ogni conflitto psicologico produce invariabilmente delle tensioni corporee e mentali. La pratica di mantenere un asana in condizioni di perfetto rilassamento sia fisico (prayatnasaithilya) sia mentale (anantasamapatti) condiziona il complesso psicofisico a conservare questo stato di equilibrio anche quando si trovi in presenza di fattori disturbanti.

E’ un fatto ben noto che se l’organismo non produce tensioni – le quali sono reazioni di contrasto alle situazioni avverse – gli effetti dannosi di queste ultime non aumentano, ma al contrario tendono ad attenuarsi, fino a scomparire.

Pranayama

Sutra II 49 50 51 52 53 – Pranayama

Curioso anche che negli interi Yoga Sutra al pranayama venga lasciato spazio in appena 5 sutra. E’ possibile comunque ottenere preziose informazioni da queste circa la nostra Pratica personale.

Sutra 49: Trad. lett.: essendo in tale stato (di asana, o di dvandvanabhighata = in assenza di conflitti) l’interruzione (o modificazione) del (ritmo regolare del) movimento di inalazione ed esalazione (è) pranayama

La pratica di asana quale prerequisito al pranayama è considerata obbligatoria. E siccome tutti gli otto anga dello yoga di Patanjali sono mutualmente facilitatori, è evidente che la pratica di pranayama sarà tanto più effcace quanto maggiore sarà la maestria conseguita in asana (ovvero quanto minori saranno i fattori fisiologici ed emozionali che possano interferire con il controllo del respiro).

Sutra 50 Trad. lett.: (il pranayama presenta tre varietà), (di modalità) esterna, interna e sospesa (a seconda di essere) misurata (e regolata) dalla espansione, tempo (e) numero (dei cicli effettuati), (sì da divenire) prolungata (e simultameamente) sottile.

Due possibili interpretazioni dei 3 tipi di Pranayama:

v1) bahya-vrtti, dove la sola esalazione viene assottigliata e prolungata, il resto rimanendo invariato e quindi senza arresto del respiro

v2) abhyantara-vrtti, allo stesso modo, consisterebbe nell’assottigliamento e prolungamento della sola inalazione, senza modificare il resto;

v3) in stambha-vrtti la respirazione viene interrotta; se ciò debba avvenire dopo l’inalazione o dopo l’esalazione, non essendolo specificato, viene lasciato decidere dal praticante. Non è specificato nemmeno se l’inalazione e l’esalazione debbano essere prolungate e assottigliate, ma dalla discussione generale sembra desiderabile che queste due fasi abbiano da esserlo anche in stambha-vrtti pranayama.

Altra interpretazione:

1)bahya-vrtti, una sospensione del respiro dopo una esalazione prolungata;

2)abhyantara-vrtti, una sospensione dopo una inalazione prolungata;

3)stambha-vrtti, in cui la sospensione del respiro sarebbe l’aspetto dominante, effettuata sia dopo l’esalazione che dopo l’inalazione, entrambe prolungate.

Queste tre varietà di pranayama vengono regolate in base a desa, kala e samkhya.

1. Desa, che signfica zona o espansione, sta per la distanza fino alla quale può essere avvertito il flusso dell’aria, cosa che si può fare ponendo un fiocco di cotone a una certa distanza dalle narici durante l’espirazione; nell’inspirazione tale distanza può essere valutata dal tocco dell’aria – inizialmente una semplice sensazione di freddo – all’interno delle narici, e in seguito all’interno del corpo in forma di pressione, stimolazione, ecc.. In tali esperienze interne, la sensazione è prodotta più mentalmente, cioè dagli impulsi pranici, che dall’attuale contatto-frizione dell’aria. Perciò accade spesso che la sensazione si spinga fino a zone inaccessibili anatomicamente al respiro, come l’ombelico o la fronte, ecc. maggiore la forza del respiro, più grande sarà desa, lo spazio in cui il movimento dell’aria o del prana verranno percepiti. Desa si applica solo all’inspirazione e all’espirazione, mentre nella sospensione del respiro, desa non è valutabile.

2. Kala significa tempo, in riferimento alla durata di un intero ciclo respiratorio nel pranayama. Patanjali non fornisce alcune precisa unità di misura per la regolazione delle fasi pranayamiche, né le relative proporzioni.  Usualmente la fase di sospensione è la più lunga delle tre, e l’espirazione sempre più lunga dell’inspirazione. Le classiche proporzioni della tradizione Hatha sono 1:4:2, da raggiungere però molto gradualmente (1:2:1, 1:2:2, ecc).

3. Samkhya significa numero e si riferisce al numero di cicli da effettuare. Maggiore il numero dei clcli, più intensi ed efficaci saranno gli effetti del pranayama. Anche questo fattore deve essere aumentato gradualmente. sutra 51 Trad. lett.: la quarta (varietà di pranayama è quella che) non riguarda (le modalità) esterna (o) interna (della respirazione). La differenza rispetto allo stambhavrtti citato nel sutra II:50 consiste nel fatto che in questa quarta varietà l’arresto del respiro avviene spontaneamente. E’ opportuno a questo punto riassumere i punti salienti della nostra discussione sul pranayama:

  1. Il pranayama deve essere praticato in una posizione a sedere appropriata, proferibilmente dopo aver realizzato una sufficiente padronanza di tale tecnica.
  2. Il Pranayama è un gativiccheda, cioè un arresto di svasa-prasvasa ovvero della normale respirazione ritmica. Pertanto, è da considerarsi una modificazione o alterazione del modo normale di respirare. Questa modificazione deve attuarsi nel prolungamento e assottigliamento del respiro, senza alcuno sforzo di alcun tipo.
  3. L’arresto o cessazione della respirazione è la fase più caratteristica e importante del pranayama. Le varietà di pranayama che includono tale arresto sono quelle che producono i migliori risultati, specialmente dal punto di vista psico-spirituale; ma questa sospensione del respiro (kumbhaka) è una pratica pericolosa e può intraprendersi solo quando il sadhaka sia in grado di prolungare l’esalazione a 30 secondi o più senza avvertire il minimo senso di soffocamento.
  4. Anche in tale caso, la sospensione alla fine di una lenta e profonda esalazione è più sicura e va tentata per prima. Solo dopo una sufficiente pratica con tale tipo di sospensione, e quando è lunga e confortevole, egli può provare la sospensione alla fine di una lunga inalazione. Ambedue queste sospensioni non devono superare i 5’’ all’inizio, e vanno incrementate di un paio di secondi alla settimana (sempre in sicurezza).
  5. Tuttavia, assottigliare e prolungare una o entrambe le due fasi della respirazione, senza arresto del respiro, può apportare simili benefici a quelli della sospensione, per quanto in misura ridotta. Essendo priva di pericoli, questa tecnica va praticata per prima. Tutte queste modificazioni e applicazioni della respirazione possono considerarsi dei pranayama.
  6. Il principio chiave del pranayama consistendo nel prolungamento e conseguente assottigliamento delle fasi respiratorie, in base al presente sutra una prolungata e sottile espirazione o una prolungata e sottile inspirazione, oppure una deliberata sospensione del respiro, possono considerarsi dei pranayama.
  7. Sebbene Patanjali nel presente sutra faccia menzione di tre tipi di pranayama comportanti la deliberata modifica di una sola fase respiratoria, e nel sutra successivo II:51 ne citi una quarta varietà, ove l’arresto respiratorio avviene spontaneamente, un sadhaka può vantaggiosamente adottare una tecnica in cui tutte e tre le fasi respiratorie siano controllate e rese sottili e prolungate.
  8. Dopo una lunga pratica (anche di anni) con questi tipi di pranayama, il sadhaka può passare all’arresto spontaneo del respiro in una qualsiasi delle fasi. Ciò indica che il suo sistema respiratorio è stato adeguatamente condizionato ed è il segno della vera padronanza del pranayama.

  sutra 52 Trad. lett.: Da questo (pranayama) si dissolve il velo che copre (internamente) l’illuminazione.

La caratteristica fisiologica principali del pranayama, cioè il rallentamento della respirazione che condiziona il centro nervoso regolatore ad una concentrazione di CO2 più alta del normale, la tranquillizzazione della mente è più marcata e ottenuta più rapidamente.

Il citta diventa pronto a volgere la sua attività in qualunque direzione si desideri. In altre parole, il citta può penetrare molto profondamente e completamente nella realtà di qualsiasi oggetto, il che è come dire che può accedere ai processi meditativi di dharana, dhyana e samadhi applicati a quel determinato oggetto.

sutra 53 Trad. lett.: e la abilitazione della mente (ad entrare) in dharana (è anche un effetto dal pranayama).

L’altro effetto del pranayama, indicato dal presente sutra, precisa che il pranayama è un prerequisito essenziale per entrare in dharana, cioè nel primo stadio del processo meditativo. La tranquillizzazione di citta (v. sopra), producendo in esso una capacità penetrativa della realtà che si cela dietro l’oggetto scelto per la meditazione, è la ‘’yogyata’’ (abilitazione, eleggibilità) ad entrare nel primo stadio della meditazione. Patanjali cita dharana al plurale (su) perché in tale stadio il citta percepisce diversi pratyaya (esperienze) dello stesso e unico oggetto (per una spiegazione completa v. III:1-4).

Pratyahara

Il significato principale di pratyahara nell’ astanga yoga è ‘’ritiro dei sensi all’interno verso la loro origine, ossia verso la mente e alla fine verso il citta’’.

In certo modo, essi assumono la forma di citta, si fondono in citta e quindi non hanno esistenza o attività separata e all’infuori di citta. Dato che le abituali aperture sul mondo esterno non funzionano più, la mente e il citta non ricevono alcun messaggio o comunicazione da qualsiasi realtà esterna.

Evidentemente, questo è un prerequisito essenziale per gli sviluppi ulteriori del processo meditativo. Se il citta continuasse a ricevere informazioni e segnali dall’esterno attraverso i sensi, non vi sarebbe citta prasadana (stato piacevole e pacificato) e il citta non potrebbe immergersi nelle proprie profondità, che è quanto accade durante dharana-dhyana e samadhi Patanjali non chiarisce come realizzare il pratyahara.

La ragione è che questo avviene spontaneamente come risultato di una lunga e sincera pratica dei primi quattro anga, specialmente di pranayama (ma fornisce alcune tecniche che possono essere utili) Tecniche raccomandate da Patanjali per facilitare l’assorbimento (stabilizzare Manas)(I-35-39): Si basano sulla creazione di Visaya (oggetti mentali): La sensazione creata sarà che la data cosa sia stata prodotta internamente, dalla mente stessa, che ne viene ‘riempita’. I Visaya sono conosciuti e goduti dalla mente attraverso la mediazione di uno o più dei cinque sensi della percezione. Una tecnica ad esempio: La mente deve produrre un oggetto-soggetto il cui effetto sia percepito prevalentemente attraverso uno qualsiasi dei cinque sensi.

Quindi, la mente deve creare o immaginare, come se la cosa esistente internamente, potesse essere vista, toccata, ecc., mediante una tenace e costante ripetizione di tale contemplazione.

Dharana

Per realizzare questa tecnica il sadhaka deve sedere quieto e concentrarsi sulla sensazione desiderata per una mezz’ora al giorno finché l’esperienza non si materializzi.

L’esperienza prodotta in tal modo si rivela particolarmente strana e piacevole, e può giungere ad ossessionare la persona, come in una dipendenza. Pertanto, La tecnica va praticata soltanto allo scopo di abituare la mente a rimanere stabile a lungo su un determinato oggetto. Una volta raggiunto il risultato e l’abitudine a mantenere stabile la mente per il tempo desiderato, essa deve venir dismessa.

La tecnica raccomandata nel sutra consiste nel produrre artificialmente la visione di una luce o di una fiamma luminosa, mediante la ripetizione costante alla mente che essa può effettivamente vederla. Tuttavia, come spiegato in I:35, queste sensazioni sono così gradevoli alla mente che essa tende a rimanervi attaccata, così imparando a rimanere stabile. Anche questa tecnica deve essere abbandonata una volta che la mente abbia imparato a mantenersi nello stato di citta-prasadana.

Un’altra tecnica: Primo modo: la mente contempla e medita sulla vita di un santo noto per essere libero da attaccamento e passioni. Come risultato, la mente diventa sempre più distaccata e ciò conduce naturalmente alla sua stabilizzazione.

Secondo modo: costante riflessione sulle sofferenze che inevitabilmente gli attaccamenti e le passioni producono, la mente così rieducata finisce per obbedire e modellarsi secondo queste istruzioni.

Ultima tecnica Attivare Sakshi – Il testimone interiore (parte di citta che rimane consapevole durante il sonno – ricorda la «sveglia interiore» che ogni tanto abbiamo quando c’è un impegno importante) Abituare Sakshi a produrre un sogno ad un’ora prestabilita della notte e a sognare ciò che si desidera Le impressioni lasciate da questi SOGNI LUCIDI aiutano l’assorbimento Secondo modo (più difficile): abituare Sakshi a rimanere desto nel sonno profondo e non generare sogni.

Dhyana

Dhyana è così descritto: ‘’una ininterrotta e continuamente estesa consapevolezza di un’esperienza molto precisa e uniforme dell’oggetto’’ non deve esserci la benchè minima variazione in questa cognizione o consapevolezza dell’oggetto Durante lo stato di dhyana non esiste attività pensante circa l’oggetto prescelto, dato che qualunque pensiero o ideazione provocherebbe un’alterazione dell’esperienza, il che significherebbe l’interruzione del processo di dhyana e una regressione allo stato precedente di dharana

Samapatti

Il samapatti, quindi, è un processo nel quale avviene una totale identificazione del citta con l’oggetto della comprensione. Un processo è un’attività implicante mutamenti continui, e in tale processo continuo, possono susseguirsi diversi cambiamenti di condizioni o di stadi. Per comodità di studio e di comprensione del processo del samapatti, possiamo distinguere e designare, arbitrariamente, un certo numero di stadi.

Così, il processo del samapatti viene suddiviso in quattro stadi, due principali, ognuno dei quali è a sua volta duplice. Abbiamo, pertanto, due samapatti, associati rispettivamente a vitarka e vicara, i quali si suddividono in suddivisioni e cioè in savitarka-nirvitarka e savicara-nirvicara.

Alla fine dell’intero processo, viene raggiunto uno stadio che rimane stabile e invariato per un certo tempo, e questo stadio è in certo senso il termine del processo di samapatti.

Questo stadio stabile è detto samadhi, e come indicato in I:46, questo samadhi particolare, termine ultimo dei quattro samapatti, è detto Sabija (‘con seme’). Pertanto possiamo dire che il risultato dei processi di samapatti è il samadhi.

samapatti dharana dhyana

Ecco allora che dal precedente schema diventa chiaro che le samskara, ossia le impressioni del passato che giacciono nel karmasaya, il deposito karmico, generano i vitarka, questi pensieri indesiderabili che compaiono nelle prime fasi di assorbimento.

Mano a mano che si svuota il karmasaya e che la forza, il numero e la frequenza dei vitarka si affievolisce si passa nella fase nirvitarka samapatti.

E’ in questo stadio che cominciano a giungere pensieri positivi ma che sono comunque distrazioni dell’assorbimento meditativo, ossia i Vicara. Mano a mano che anche i Vicara si esauriscono e la mente riesce a stare concentrata e fissa nel suo oggetto di meditazione ecco che ci si avvicina al Samadhi.

karmasaya

Vitarka e Vicara

Mano a mano quindi che arrivano i Vitarka, sotto forma di parole o immagini il processo mentale per esaurire il bagaglio karmico diverrebbe secondo Biagi quindi una sperimentazione dello stesso oggetto di meditazione via via a livelli progressivi e sempre più profondi.

Come lo stesso Re Bhoja spiega parlando delle differenza tra parola, significato e comprensione del significato relativo ad una parola, la stessa meditazione, fosse ad esempio sulla parola mucca, porterebbe alla scissione tra parola, significato e sua rappresentazione, il che appare logico e banale per un certo verso come ragionamento il distinguere l’animale stesso dalla parola usata per indicarlo e dalla nostra rappresentazione mentale dello stesso, ma ad un attenta analisi scopriamo che non lo è affatto.

La nostra osservazione del mondo che ci circonda avviene tramite le parole. Mi spiego: per un bambino che non conosce la parola “canarino” l’animale che si posa volando davanti a lui è una magia con le ali. Lo osserva curioso, userebbe tutti i suoi sensi, potesse, per esperire l’oggetto della sua curiosità. Lo toccherebbe, lo annuserebbe, lo metterebbe in bocca…

Tuttavia dopo che l’adulto gli dice il “nome” della magia con le ali, ecco che il bimbo può perdere l’interesse. La magia con le ali diventa “solo” un canarino. Tutti gli oggetti e le cose che ci circondano, se ragioniamo in questo modo, sono visti e vissuti soprattutto a livello mentale, attraverso nomi e rappresentazioni mentali degli stessi mentre degli oggetti reali sappiamo ben poco perché abbiamo smesso di esperirli una volta scoperta la parola che li designa.

Se portiamo questo ragionamento su oggetti impalpabili e sensibili ecco che allora si apre un mondo. Se già parlando di oggetti tangibili la confusione è tanta, figurarsi quando si parla di stati mentali di immersione meditativa. Il rischio di viverli solo attraverso quanto è stato letto sull’argomento e tramite la rappresentazione mentale che ci siamo fatti dell’argomento è alta.

Questo è di fondamentale importanza per distinguere ciò che sono immagini mentali, ossia creazioni della mente, ed oggetti quindi di meditazione.

Se seguiamo l’indagine proposta dell’Advaita Vedanta e portiamo come oggetto di meditazione l’osservatore stesso, ossia la consapevolezza stessa, ecco allora che diventa necessario scindere l’immagine che la mente stessa ha dell’osservatore, o quello che crede sia, e l’essenza stessa dell’osservatore e capire, esperire, cosa questo significhi.

samadhi Ad ogni modo, ciò che Biagi estrapola dai sutra sarebbe un percorso introspettivo in differenti livelli dove alle sfere Vitarka e Vicara ne seguono altre, Ananda, Asmita, Anya per poi arrivare al Kaivalya.

Metafora della meditazione

Addentrandoci in questa indagine ecco possiamo comprendere come la meditazione sia spesso paragonata ad uno svuotarsi. Immaginiamo di entrare nel nostro soggiorno. Ciò che vediamo, che spicca subito alla nostra vista, è il disordine se presente, sono gli oggetti stessi, la penna sulla scrivania, la felpa dimenticata sul divano, il cuscino caduto per terra. Togliendo questi piccoli oggetti cominciamo a notare il divano stesso.

La libreria diventa visibile in quanto mobile quando l’abbiamo svuotata da tutti i suoi libri. Prima guardando la libreria né vediamo solo il contenuto. Questa ricerca prosegue, portando fuori dalla stanza anche gli stessi mobili. Ecco allora che ci accorgiamo della dimensione della stanza, delle mura, del pavimento. Togliendo anche la stanza rimane lo spazio ivi contenuto, ed è quello spazio che permette a tutti i contenuti precedenti di poter esistere e di occuparlo.

Ananda

Il processo meditativo non è molto differente. Svuotando la sostanza mentale ad un certo punto arriva uno stato di intensa beatitudine, in quanto la mente meccanica si è interrotta. La pace di avere una mente ferma è simile a quel momento in cui si rimane assorti guardando un tramonto, o un bel panorama. C’è un attimo, facendo attenzione, prima che la mente cominci il suo dialogo interno giudicando quanto stiamo vivendo con frasi del tipo “ma che bel tramonto”, “mi ricorda di quella volta”….c’è un attimo in cui la mente è ferma e noi siamo nel tramonto. In quell’istante, che a volte si prolunga per dei meravigliosi secondi o forse più, in cui la mente tace e si assapora la semplicità di stare nell’osservazione del tramonto, senza dargli un nome, un’etichetta, un giudizio, o associargli qualche altro pensiero o ricordo. Lo stato di ananda, della mente che si ferma, è descritto come beatitudine, letizia, grazia…

Asmita

Continuando l’indagine ad un certo punto non rimane altro che l’ahamkara, il senso dell’io, purificato da tutti i possibili attributi. Non è più un “io sono un uomo”, “io sono un impiegato”, “io sono un padre di famiglia”, “io sono quello che sta guardando questo tramonto” ma semplicemente un “io sono”. Il salto sostanziale è l’abbandono ulteriore, per entrare nella sfera Anya, anche di questo senso di “io sono”. Pier Giorgio Caselli della ScuolanonScuola lo descrive come il realizzare che noi non siamo persone, ma qualcosa di immensamente oltre.

Anya

Mooji dice:”Noi esseri umani non dobbiamo dirigere la coscienza, perché non ne siamo né i controllori né i creatori; siamo l’espressione e l’incarnazione vivente della coscienza che appare sotto forma di persone indipendenti e compiono azioni e pensano pensieri. L’abbandono del senso di controllo è segno di maggiore intuito e spontaneità, e della pura conoscenza di Sè che sta sbocciando dentro di voi.”

L’abbandono del senso di controllo è preambolo al vero lasciarsi andare, ossia nella morte del Sé di cui lo stesso Nisargadatta racconta quando afferma tranquillamente di essere morto. “…La gente teme di morire perché non sa cos’è la morte. Il sapiente è già morto e ha visto che non c’era d’avere paura. Non appena conosci il tuo essere, non temi più. La morte dà libertà e potere. Per essere nel mondo, devi morire al mondo. Allora l’universo è tuo, diventa il tuo corpo, un espressione ed uno strumento.

I.: Cosa muore alla morte? R.: L’idea “io sono il corpo”. Il testimone non muore.”

Ramana Maharshi descrive questo passaggio così :”La morte del nostro corpo non è una morte reale, perché questo corpo è una pura immaginazione, così quando la nostra mente cessa di immaginarsi come questo corpo, si immaginerà come qualche altro corpo, come fa nel sogno. Poiché la causa dei nostri ripetuti sogni di nascita e morte è solo la nostra mente, la sola morte reale che possiamo sperimentare è la morte della nostra mente. La nostra mente è sorta o è nata perché abbiamo dimenticato cosa siamo realmente. Se avessimo conosciuto noi stessi come siamo realmente, non avremmo potuto confonderci con ciò che non siamo. Proprio come un sogno può sorgere dentro di noi solo quando stiamo dormendo — cioè, quando abbiamo dimenticato il nostro attuale sé di veglia — così la nostra illusione di essere questa mente può sorgere solo nel fondamentale sonno di dimenticanza del nostro vero sé non-duale. Quindi poiché questa auto-dimenticanza o autoignoranza è l’oscurità che ha dato origine alla nostra illusione di essere questa mente, quando è distrutta dalla chiara luce della vera auto-conoscenza, la nostra mente è distrutta con essa.”

Questi grandissimi Maestri hanno trasceso la mente duale e sono andati nell’Oltre, in quella zona che gli Yoga Sutra definiscono Anya.

Si è consapevoli anche che parlare di questi stati e ipotizzare quale livello realizzativo abbiano raggiunto questi immensi personaggi sia come l’intento di un geranio di capire il complicatissimo teorema di Fermat. Sicuramente la paura della morte è uno dei fattori determinanti nella difficoltà di lasciarsi andare ed affrontare la meditazione accogliendo quel che accade, lasciando andare anche l’idea che abbiamo su noi stessi e cosa crediamo di essere e di cosa crediamo esattamente sia il mondo stesso. Il primo passo è sicuramente l’accettare di non poter capire questo stato con la mente e affrontare il viaggio con fiducia ma anche con l’ardire di lasciarsi dietro tutti i punti fissi e le certezze più fondamentali della nostra vita.

Esprimere questi concetti con delle parole risulta davvero difficile, tuttavia se ci fermiamo un attimo nella lettura e riflettiamo davvero su cosa possa voler dire, in profondità, cosa possa significare realmente l’abbandonare l’idea di essere una persona, possiamo intuire che crolla assieme a quest’idea tutto il resto, persino l’idea del mondo e di come lo conosciamo perché sarebbe un’azione fatta tramite la mente e la sensazione di essere una persona. Cosa rimane se cade anche questa idea? Cosa resta?

Samadhi

Lo stato di Samadhi caratteristico della sfera Anya è descritto dagli Yoga Sutra e commentato da Biagi nel modo che segue. Esistono 3 tipologie di Samadhi:

  • Sabija Samadhi
  • Nirbiya Samadhi
  • Dharmamegha Samadhi

Sabija Samadhi è dunque con seme, lo stato di assorbimento dove ancora esiste un oggetto di meditazione sebbene il senso dell'”io” sia scomparso. Nello stato di Nirbiya invece anche l’oggetto (il seme) della meditazione viene abbandonato. Lo stato di Dharmamegha Samadhi viene sperimentato una volta soltanto ed è prima del Kaivalya o liberazione.

Riassunto

  • Prerequisiti per il cammino (attraverso il Kriya – Tapas, Svadhyaya – Isvara Pranidhana – si attenuano i vizi capitali (5 klesa), Yama e i rimanenti Nyama completano la fase preparatoria al cammino)
  • Capacità di controllare i fattori fisiologici ed emozionali (Maestria in asana)
  • Yogyata: Stabilizzazione della mente, che diventa più tranquilla e aumenta la capacità di penetrare in profondità (con la maestria in Pranayama)
  • Citta prasadhana (stato raggiunto grazie a Pratyahara, nulla di esterno dai sensi penetra nello stato interiorizzato)
  • Dharana (nei suoi livelli di Savitarka, Nirvitarka, Savicara e con le sue 4 tecniche proposte per facilitare l’assorbimento meditativo)
  • Dhyana (3 livelli di Nirvicara, nello stato finale i Vicara sono affievoliti al punto da scomparire del tutto)
  • Samadhi (è la fine dei processi di Samapatti-unione con l’oggetto continua e prodonda. Totale identificazione del Citta con l’oggetto – Sabija Samadhi- successivamente quando si «perde» il seme diventa Nirbiya Samadhi e poi Dharmamegha Samadhi. Dopo c’è il Kaivalya.
  •  
  • 7 stadi yoga sutra

 

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Origini dello Yoga

Le origini dello Yoga

Le origini dello Yoga risalgono a ben 5000 anni fa, forse più. I più antichi reperti storici vennero trovati nel 1927-1931 negli scavi archeologici di Mohenjo-Daro e Harappa.

Valle dell'Indo

Queste città fiorirono nel periodo compreso tra il 3300 a.C. e il 1600 a.C. e sono tra le più importanti città fortificate della civiltà della valle dell’Indo anche se i primi stanziamenti di coltivatori nella zona risalgono alla metà del settimo millennio a.C..

ricostruzione di Harappa
ricostruzione artistica di Harappa

Degno di nota è che ad Harappa tra il 2600 e il 1900 a.C. venne introdotto uno dei più antichi metodi di scrittura. A seguito di alcuni cambiamenti climatici e le condizioni di coltivazione rese più difficili da continui allagamenti Harappa venne definitivamente abbandonata nel 1600 a.C e la popolazione, dispersa ai piedi dell’Himalaya, abbandonò l’uso della scrittura con un conseguente impoverimento culturale.

Mohenjo-Daro, cittadina analoga di circa 40.000 abitanti era piuttosto ricca, aveva scambi con la mesopotamia, e nella parte centrale poteva vantare opere di edilizia molto innovative per l’epoca: bagni pubblici, sale per conferenze, pozzi, rudimentali fognature e gestione delle acque sporche, alcune case addirittura con fornaci sotterranee per riscaldare l’acqua.

statuette harappa

I reperti trovati per quanto riguardano lo Yoga sono alcune statuette di argilla che mostrano alcune posizioni che venivano praticate ai tempi.

statuetta yoga

La religione dell’epoca

La religione dell’epoca di stampo dravidico basava il suo culto sulla Dea Madre, identificandola con la fecondità e con la forza della natura, sul culto di Shiva, sugli alberi sacri, simboli fallici, vacche e cobra sacri. A questo periodo risalgono alcune rappresentazioni del dio Shiva in posizioni yogiche per potenziare e sublimare le energie sessuali.

Shiva

Le invasioni degli Arii

A seguito delle invasioni degli Arii (1500 a.C) le popolazioni della civiltà dell’Indo, già in difficoltà per le condizioni sempre più difficili di agricoltura, vennero disperse. Gli Arii, uccidendo e costringendo i superstiti alla fuga verso le regioni centro-meridionali dell’India, dove ancor oggi troviamo discendenti come la popolazione dei Tamil, si insediarono nella zona che divenne nuovamente fiorente.

invasioni degli Arii

I sopravvissuti, sfavoriti dalle forti differenze somatiche, furono relegati in fondo alla piramide sociale indiana, costituendo i Parya, o fuori-casta, ma portarono con sè usi, costumi, aspetti religiosi e anche lo yoga.

articolo

Far risalire le origini dello Yoga alla popolazione Dravidica ad alcuni dà fastidio perché verrebbe riconosciuta alla classe dei Parya un’importantissima eredità. Tuttavia ci sono studiosi indiani che con coraggio riconoscono alle popolazioni di lingua Tamil derivanti dai Dravidi questo merito.

Dravidi e Arii
sopra: tratti Dravidici, sotto tratti degli Arii

 

Il culto di Shiva

Shiva, nelle sue originarie caratteristiche sessuali, risale alla divinità dravidica e viene affiancato a Shakti, la Madre Terra.

Il tantrismo e l’Hatha Yoga che ne deriva, non sono figli dell’India ariana bensì della più antica civiltà dell’Indo. La stessa espressione Hatha Yoga dimostra l’origine non ariana: Ha “Sole” Tha “Luna”  sono termini decisamente differenti da quelli sanscriti Surya e Chandra.

Shiva Shakti
Shiva e Shakti, i due aspetti del Divino

Presso la religione induista, il Liṅga consisteva in un oggetto dalla forma ovale, simbolo fallico considerato una forma di Śiva. In termini metafisici, rappresenta la forma dell’Assoluto trascendente senza principio né fine, oppure la forma del relativo formale che si fonde con l’Assoluto senza forma, o Brahman.

Shiva Lingam Ioni Shakti
Shiva Lingam Ioni Shakti

 

Gli dei induisti

Mano a mano che la civiltà degli Arii cresce florida ecco nascere la grande eredità Vedica. Le energie di Shiva e Shakti si rivedono nelle tre divinità più importanti del culto Induista: Brahman, il creatore, Vishnu, colui che mantiene il creato, e Shiva, colui che lo distrugge e grazie al quale il nuovo può manifestarsi.

La controparte femminile di questi tre dei è Saraswati per Brahman, Lakshimi per Vishnu e Parvati per Shiva.

Saraswati

Lei rappresenta la parola, l’eloquenza, la sete di sapere, la conoscenza intellettuale, mentre come retaggio ed evoluzione della sua antica connessione con il fiume simboleggia anche l’acqua e, per estensione, la pulizia e la guarigione. Chiara, luminosa, associata a immagini come il cigno, il loto bianco e il colore bianco in genere, è però talmente virtuosa e spirituale che sessualità ed eros sembrano non appartenerle. Al punto che anche il suo rapporto con il dio Brahma è ambiguo: ne è sia figlia sia moglie. Ma non c’è niente di incestuoso, piuttosto la leggenda di una dea creata appositamente dal proprio sposo con una missione, quella di promuovere e proteggere la conoscenza. 

Lakshmi

Siede serena su un grande e roseo fiore di loto, simbolo di purezza e spiritualità, la “dea madre” Lakshmi, consorte di Vishnu e madre di Kama, il dio dell’amore. Dotata di carnagione dorata, dolcissima femminilità e classica bellezza, ha quattro braccia e le sue mani sono ornate di gioielli: con una offre benedizioni, un’altra invece lascia sgorgare da una coppa monete d’oro e altri simboli di prosperità e abbondanza. Le altre due, infine, sorreggono ciascuna un altro fiore di loto. Spesso accanto a lei compaiono corsi d’acqua placida o elefanti, entrambi manifestazioni di impegno costante e di realizzazione materiale e spirituale. Considerata anche dea della ricchezza, è presente in forma di immagine o statuetta in moltissime case induiste. Dolcezza, protezione e maternità sono le sue caratteristiche, e nella tradizione la donna sposata dovrebbe ispirarsi a lei, serenamente intenta a dare sostegno, così come il marito dovrebbe cercare nella moglie un’idea di Lakshmi. Ed ecco allora che nell’iconografia abbondano anche le immagini di felicità coniugale di Lakshmi e Vishnu, spesso raffigurati insieme mentre sono affiancati, legati, abbracciati, con lei appoggiata sulle ginocchia di lui oppure intenta a massaggiargli i piedi.

Parvati

In un intreccio che sembra ricordare “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock, la leggenda narra che la prima moglie di Shiva, Sati, diede fine alla sua vita immolandosi, spinta dalla vergogna e dall’indignazione dopo che suo padre aveva offeso il genero non invitandolo a una cerimonia, e che da allora il neo-sposo e subito vedovo Shiva, consumato dal dolore, si rifugiò nell’Himalaya per vivere da asceta, meditando e rifiutando la vita terrena. Ma la rinuncia all’amore non era destinata a durare: ecco ripresentarsi Sati reincarnata sotto forma di una nuova donna-dea, Parvati, figlia della personificazione della montagna e di una ninfa. La saggia e bella Parvati, le cui grazie estetiche non sembrano destare alcun interesse nel suo amato Shiva, capisce che deve ammaliarlo giocando nel suo stesso territorio e anche lei si rifugia da asceta nella montagna, finché l’oggetto del suo amore, conquistato da tanta spiritualità, non si decide a prenderla in moglie. Esiste anche un’altra versione della leggenda, più affine alle occidentali storie di Cupido: secondo il romanzo epico Kumurasambhavam, il dio dell’amore Kama decise di aiutare Parvati scoccando una freccia in direzione del dio che meditava, per colpire la sua attenzione. Distratto dalla meditazione, Shiva aprì il terzo occhio con cui però incenerì all’istante il povero Kama, privando così anche il mondo della forza del desiderio sessuale. Ma con l’intercessione di Parvati, nel frattempo divenuta la nuova moglie di Shiva, ecco resuscitare Kama. L’iconografia tradizionale mostra due sole braccia per la bella e gentile Parvati, con il sinistro leggiadramente sollevato e il destro che tiene in mano un fiore di loto. Detta anche “figlia della montagna”, è madre di Ganesh e Skanda e anche lei rappresenta un idea le femminile di delicatezza e benevolenza.

Il sistema delle Caste

Il sistema a caste aveva all’epoca anche la sua ragion d’essere, partendo dal Re che era illuminato, le caste più vicine erano quelle che più assomigliavano al Re in termini di conoscenza e visione, dall’alto al basso le caste non avevano la stessa levatura interiore e avevano compiti diversi.

Ad esempio lo Yoga era solo per le caste più elevante e che divenivano a loro volta manifestazioni di ciò che avevano realizzato.

caste indiane

Le caste erano quindi come le diverse parti di un corpo umano, ognuna con ruoli diversi seppur tutte necessarie affinché il corpo possa vivere. In questo modo si generava anche un movimento verso l’alto, infatti le caste minori erano spronate ad elevarsi interiormente per poter passare alle caste più alte.

Logico che se il Re non è illuminato e le persone invece di essere messe nelle varie caste in base alla levatura interiore sono messe a caso il sistema non regge. Tuttavia le caste sono perdurate fino ad oggi anche se non rispecchiano più la logica originale.

I Veda

veda

la rivelazione (Sruti) dei veda comincia nel quindicesimo secolo a.C.

Si ricorda che fino al primo secolo dopo Cristo la trasmissione dell’insegnamento avveniva oralmente in lingua Sanscrita, lingua conosciuta solo alle caste indiane più elevate.

I Veda sono divisi in raccolte, chiamate Samitha (Samitha=Insieme), e sono inni, formule magiche di magia bianca e nera, preghiere, mantra…

Fu rivelato ai Brahmani – sacerdoti del tempo e poi aperto come sapere anche agli kshatryia – guerrieri e anche ai Vaishya – commercianti. Non venne comunque mai rivelato alla casta dei Sudra.

Le diverse Samitha sono:

1.RG – Veda

2.Sama – Veda

3.Yajur – Veda

  • Che insieme fanno la triplice scienza sacerdotale. L’ultima Samitha sono le Atharva Veda che è un repertorio di incantesimi di magia bianca e nera.
  • L’ultima parte dei veda sono i Vedanga, ossia i Brhamana, Aranyaka e le Upanishad (Vedanta).

linea temporale induismo

 

Brahmana e Aranyaka

Il popolo degli Ari (da Arya = nobile) arrivato in india a seguito di migrazioni che partirono dal nord est europeo tramandò lo yoga alle popolazioni locali.

In europa vi era la glaciazione e quindi questo popolo migrò in paesi più caldi e miti per poter sopravvivere, logicamente dove c’è caldo c’è anche vegetazione e cibo.

I Brahmana e Araniaka (detti anche Vedanga) sono i canti delle foreste, canti fatti dai Rishi che si spostarono appunto nelle foreste.

Upanishad

Le Upanishad (che vuol dire “seduti ai piedi del maestro” e che sarebbero i Vedanta, ossia gli insegnamenti pratici dei Veda) sono scritti posteriori e risalenti tra l’ottavo e il terzo secolo avanti Cristo e si dividono in antiche e medie Upanisad in base al periodo in cui vennero scritte.

Filosofia dei sistemi Darsana

 Nei darsana (Drs=vedere, Darsana=visioni) invece abbiamo i sistemi per mettere in pratica le rivelazioni dei Veda e liberarsi dal Samsara

E’ il metodo scritto per realizzare quanto scritto nei Veda (Veda, Vedanga e Vedanta) e comprendono nello specifico 6 sistemi ordodossi, ossia Samkhya, Yoga, Nyaya, Vaiesika, Mimansa e Vedanta e tre sistemi eterodossi, ossia che contrappongono una visione che non ammette l’esistenza dell’Atman (Atman = Dio) e sono il Buddismo, il Jainismo e le scuole materialiste.darsana

E’ durante lo sviluppo dei darsana che la società dell’epoca, avendo scambi commerciali con l’europa, contagia probabilmente alcune scuole filosofiche Greche da cui si spiegherebbero alcune loro somiglianze con quelle indiane.

Gli Yoga Sutra scritti da Patanjali si innestano quindi nella filosofia dei sistemi Darsana e può essere considerato il sistema pratico per realizzare quanto affermato dal Samkhya sebbene vi siano alcune sfumature che ne differenziano il contenuto.

 

 

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