Spesso nello Yoga si sente parlare di accettazione.
Di non opporre resistenza alla vita, accettare quel che viene senza desiderare cambiarlo.
Lasciar andare.
Conveniamo tutti che accettare di essersi svegliati in una giornata di pioggia, di essersi sporcati la camicia, di trovare traffico o di dover rialzarsi dopo una sconfitta qualsiasi non è particolarmente difficile.
Ce la si può fare (alcuni con fatica ma ce la fanno)!!
Quando il lato più difficile della vita invece bussa alla tua porta, la situazione è diversa.
Nel lutto, nella malattia, accettare quel che viene dalla vita non è facile.
Tuttavia l’esercizio comincia proprio nella quotidianità: è nelle piccolezze e nei leggeri disagi di ogni giorno che ci si prepara a vivere anche i momenti più difficili (e in un certo verso il lavoro dello yoga aiuta proprio in questo).
Credo però che il termine accettare non aiuti a capire bene cosa si intenda veramente.
La sfumatura linguistica riportata anche nel dizionario associa all’accettare il “sopportare un evento negativo”.
Ma “sopportare” non è “accettare”.
Accettare è non creare resistenza alcuna, lasciar andare la resistenza.
Accettare non è viversi la vita con reticenza, rimuginando su ciò che ci accade, desiderando essere altrove o continuando a ripetersi che si vorrebbe essere in un altro posto.
La predisposizione d’animo che meglio descrive ciò che il vero accettare porta con sé sta ancora nel verbo “scegliere”.
Accettare un evento veramente vuol dire arrivare a sceglierlo dentro, scegliere di vivere ciò che la vita propone. Perché accettare non vuol dire vivere con resistenza ciò che la vita ti mette davanti, non vuol dire voler vivere altro e sopportare nel frattempo la nostra sofferta esistenza. La profonda accettazione include la scelta vera e consapevole, dire di sì alla vita, accettare la sofferenza, accoglierla, dire sì anche ai momenti più difficili come se li avessimo cercati, scelti.
E non è una scelta mentale.
Non riuscirete a convincervi con la mente.
E’ una scelta viscerale.
Va fatta con la pancia.
E’ un salto nel vuoto, un affidarsi alla vita in modo totale.
E’ scevra dalla paura di soffrire e pregna della consapevolezza che non ci siamo incarnati in questa vita per godercela, per spassarcela, ma per esperire.
Per vivere delle esperienze.
Giudicare le esperienze e categorizzarle in positive e negative è un brutto vizio.
La morale cattolica dell’“essere felici” è facilmente fraintendibile. Si rischia di crescere con l’idea che dobbiamo essere felici e che la sofferenza vada evitata come la peste.
Mio marito ha una malattia? Scappo con un altro uomo. Mia moglie soffre? Scappo con un’altra donna. Il mio amico soffre? Non lo chiamo più.
Inoltre vorrei farvi riflettere: opporsi che beneficio può portare?
Se ti opponi alla pioggia cesserà mai di scendere?
“La posizione è scomoda, la posizione è faticosa, la posizione…”
Oppure la mente.
“La mente è irrequieta, non si calma, continua a produrre pensieri, non si riesce a concentrarsi, ho sonno…”
Oppure l’istruttore.
“Oggi non si capisce nulla di quello che dice, parla troppo piano, parla troppo veloce, propone cose assurde, quello che propone non riesco a farlo…”
C’è sempre qualcosa a cui addossare la colpa del nostro fastidio, del nostro attrito…
…e guarda caso non siamo mai noi il motivo per cui non ci sentiamo bene.
Lo Yoga invita a riflettere, ad ascoltarsi…
…e proprio nell’ascolto di noi stessi, nei momenti di gioia o di attrito, qualcosa emerge.
Occorre chiedersi:” Perché provo attrito?”
“Cosa vuole comunicarmi questo attrito? Perché sono a disagio? Quale parte di me è a disagio?”
“Quando sono a disagio, fisico o mentale, di cosa ho paura?”
“Quale parte di me non accetto?”
La paura fa parte di noi.
Le nostre emozioni sono parte integrante di noi stessi.
Yoga vuol dire Unione.
Yoga quindi è unione anche con le proprie emozioni
Se partiamo dall’assunto che le emozioni si dividano in positive e negative già creiamo divisione.
E da questa divisione nasce la convinzione che alcune emozioni non vadano vissute, non vadano provate, ma sconfitte, allontanate, placate, ignorate ecc…
Così la rabbia viene soffocata, la tristezza ignorata, la paura soppressa, la sofferenza evitata…
Ma davvero siamo chiamati a fuggire la sofferenza? a vincere la paura?
Se sono parti di noi non è allora come dire:”fuggire dal proprio braccio, vincere la propria gamba…”?
Chiediamoci allora:”Quale parte di me non accetto? Perché?”
Questa è ricerca.
E’ un primo passo verso la conoscenza di noi stessi.