Di seguito vengono proposte delle sessioni di Pratiche. Gli audio sono stati registrati dalla chat della scuola di Yoga con gli allievi e allieve ed elaborati prima di essere trasformati in Podcast.
Ogni raccolta o sessione ha la durata da 1 a 4 settimane.
Le Pratiche descritte negli audio sono talvolta corredate da video esplicativi, approfondimenti di altre scuole, citazioni di testi e consigli vari. Il percorso proposto on-line ha il solo scopo di offrire spunti di riflessione e di provare a spiegare il punto di vista dell’autore in merito allo stato di Presenza.
Gli approcci a queste investigazioni sono molti e ci sono numerosi autori che offrono diversi percorsi. Il mare è uno solo mentre ci sono diverse barche che lo solcano e infinite “rotte” di navigazione.
Quando si parla di Yoga si parla di un mondo davvero grande.
Chi si avvicina è spesso confuso dalle diverse tipologie di Yoga che si possono trovare e soprattutto dal loro numero. Addirittura qualcuno è arrivato a fare una mappa per guidare gli inesperti a scegliere il corso più adatto a loro.
Ginnastica Yoga – Yogya
Ciò che di solito l’utente medio conosce dello yoga è solo la parte più commerciale che a far bene dovremmo chiamare con un altro nome per non confondersi. Potrebbe interessare che secondo alcuni molte delle tipologie di Yoga moderne sarebbero riconducibili ad un’altra disciplina, chiamata dagli indiani Vyayama Vidia (sanscritoव्यायाम विद्या – vyāyāma vidyā) o Yogya (sanscrito योग्य yogya) che ha a che fare più con la ginnastica che non con lo Yoga.
Lo Yoga, così come ci è pervenuto dai Veda, dalle Upanishad, dai Purana e dai poemi epici indiani (Mahabaratha e Ramayana) è una disciplina che ha il fine di svelare al praticante la sua identità con l’Universo (Jagat) e con l’Essere Supremo (Parabrahman) attraverso una serie di processi di trasmutazione realizzati spesso grazie a stati estatici ricondotti sotto il nome di Samadhi.
C’è chi fa una sintesi di tutto questo e sostiene che lo Yoga è la Pratica del Samadhi, inteso come esperienza che trasforma mente, parola e corpo, e di conseguenza la realtà percepita fino a ciò che è definito Moksha, che si potrebbe tradurre con Realizzazione, Illuminazione o “Liberazione dalla Catena delle Rinascite”, sebbene limitare lo Yoga al Samadhi possa sembrare per altri estremamente riduttivo.
In ogni caso ricordiamolo: lo Yoga NON E’ una ginnastica ma una via di crescita spirituale che conduce alla liberazione in vita, ossia alla realizzazione del principio immanente e divino che sta oltre la realtà percepibile dei sensi.
Verso l’Ego o verso il Sè?
Anche Scuole di formazione Insegnanti Yoga come Yoga Planet, che organizza corsi di livello in tutta Italia, non hanno remore a definirsi scettici sull’evoluzione del mondo Yoga e come lo Yoga è diventato ai giorni nostri constatando quanto sia la distanza che si accumula ogni giorno da come lo Yoga sarebbe da intendersi.
Ci si permette quindi di dubitare di molte delle “vie” della mappa presentata sopra, sebbene più che sul “cosa” si dubiti è sul “come”. Infatti lo Yoga moderno e le sue tipologie di Yoga può condurre il praticante alla liberazione, ma dipende ovviamente da come viene insegnato e praticato. E’ un dato di fatto invece che la deriva della nostra contemporaneità sta rendendo lo Yoga sempre più un fenomeno mediatico in cui si coltiva l’Ego, per renderlo più bello, sano e forte, per aumentare i follower su instagram o il proprio sex appael, piuttosto che un cammino di accettazione e consapevolezza che va nella direzione opposta, allontanandosi quindi dall’identificazione egoica (ossia da ciò che crediamo di essere e che non siamo).
Lo Yoga delle Origini
E’ fuorviante anche credere che lo Yoga delle Origini non fosse contaminato dall’Ego umano, come è fuorviante credere che, a chi pratica con Ego ciò che sembra essere Yoga solo in apparenza, gli sia preclusa in questa vita una più profonda realizzazione o un salto coscienziale. In passato c’è sempre stato chi si è avvicinato allo Yoga per ottenere più potere, fama, successo.
Molti erano i praticanti che ammaliati dal mito delle Siddhi (poteri Yogici sovrannaturali, ben descritti negli Yoga Sutra) si dedicavano anima e corpo per acquisire capacità straordinarie e risolvere con queste una situazione di vita particolarmente dura, sfortunata o infelice.
Alcuni santi cominciarono proprio un cammino di questo tipo cercando ad esempio dei poteri per vendicarsi di alcuni torti subìti per poi, dopo aver visto realizzarsi il loro desiderio, accorgersi del male compiuto e convertirsi ad una Via di ben più ampia veduta e saggezza (vedi vita di Milarepa).
Nei testi antichi (Upanishad, YogaSutra…) le promesse fatte dalle sacre scritture vediche a chi con zelo osservava i sacrifici e le pratiche descritte ricompensavano spesso con gioie e conquiste non solo spirituali ma anche terrene che potevano ammaliare le rozze popolazioni che cercavano una svolta nelle loro vite condotte spesso senza morale.
Tuttavia la parte più nascosta e vera dell’insegnamento, detta Esoterica, rimane, seppur celata, viva nella trasmissione che giunge fino ai nostri giorni e tutt’oggi è capace di dispensare nettare di pura saggezza a chi è disposto ad un ascolto sincero e far spazio per ricevere.
Yoga Marga: differenti approcci al cammino spirituale Yogico
Quando si parla di Yoga Marga si intendono i Marga classici, ossia i differenti approcci allo Yoga come cammino di liberazione, e NON SONO le tipologie di Yoga comunemente intese come differenti “corsi” yoga bensì approcci profondi e filosofici al cammino della liberazione e sono:
Hatha Yoga
Raja Yoga
Bhakti Yoga
Janana Yoga
Karma Yoga
Per poter meglio comprendere questi approcci occorre conoscere gli assunti iniziali del pensiero filosofico indiano da cui originano le differenti vie.
L’uomo è incompiuto
La sua coscienza è in conflitto
Si chiede spesso: quando potrò essere felice? Come trovare la pace, la serenità, la gioia?
Qual è quella serenità che può dare compiutezza?
Quali possono essere i mezzi operativi per realizzarla?
La felicità è un effetto? Faccio qualcosa e sono felice? Ottengo qualcosa e poi sono felice?
Questa ricerca della felicità se fatta attraverso le cose materiali, sensoriali, emotive non conduce ad una felicità stabile e duratura bensì ad un godimento temporaneo e si è soggetti al suo “flusso/riflusso” alternando stati di godimento a stati di sofferenza/dolore. E’ l’ignoranza (Avidya) che ci porta ad spendere energie cercando la felicità dove in realtà non è possibile trovarla. Occorre pertanto dirigerci dove possiamo trovare pace duratura, ossia rivolgerci all’Assoluto.
E’ quindi nella conoscenza dell’assoluto, di ciò che è reale e costante, che possiamo riporre la nostra fiducia e dirigere il nostro intento e sforzi per conquistare lo stato di essere liberato, ossia che si libera dalla sofferenza (ma anche dall’Ego, dalla persona, da ciò che è irreale, non assoluto, non costante, perituro).
Per Praticare lo Yoga come Scienza Spirituale occorre:
Sete di liberazione
Aspirazione alla nostra controparte Divina
Avere quell’Eros (sete/brama intelligibile) di cui parla Platone
Libertà da pregiudizi e fanatismo dogmatico
Qualificazione coscienziale-psicologica
Conoscenza della visione filosofica dello Yoga
Vocazione per l’uno e l’altro tipo di Yoga
Perseguimento dell’etica Yogica nel quotidiano (Yama-Nyama)
(cit. Essenza e Scopo dello Yoga, Raphael)
Raja Yoga:
detto lo Yoga regale più comunemente si riferisce allo Yoga-Darsana (Filosofia Yoga) cosi come esposto concisamente negli Yoga Sutra di Patanjali, per questo detto anche Yoga-Classico. Il Raja Yoga è conosciuto anche con il nome di Asthanga Yoga o yoga delle otto membra sebbene sia diverso da ciò che oggi commercialmente viene commercializzato come Ashtanga Yoga, che è una Pratica fisica non descritta negli Yoga Sutra ma inventata da Patthabi Jois. Il percorso di maturazione yogica proposto invece da Patanjali è molto complesso e vasto sebbene sia dai più semplificato e sintetizzato dalle seguenti otto pratiche: rispetto morale (Yama), autodisciplina (Niyama), Posizioni (Asana), Controllo del respiro (Pranayama), ritrazione dei sensi (Pratyahara), concentrazione (Dharana), meditazione (Dhyana), e enstasi “Liberazione” (Samadhi).
Lo Jñāna-yoga rientra nella scuola di pensiero del Vedānta. Si basa su questi principi:
VIVEKA (‘discernimento’ metafisico tra il reale e l’irreale, l’eterno e il finito, la personalità umana e il Sé sovrapersonale);
VAIRAGYA (‘rinuncia’ a tutti gli oggetti terreni e paradisiaci);
TAPAS (le pratiche ascetiche o ascesi costituita dai ‘sei tesori’ – shad sampat:
sama ovvero il controllo dei pensieri;
dama ovvero il controllo degli organi sensoriali
uparati ovvero la rinuncia alle attività che non facciano parte dei doveri, del Dharma;
titiksha ovvero la fermezza interiore rispetto alle avversità e agli opposti piacere-dolore;
sraddha ovvero la fede rispetto all’insegnamento;
samadhana, cioè la concentrazione perfetta;
MUMUKSUTVA (l’intenso desiderio di emancipazione).
Il Jnana Yoga è il sentiero della conoscenza, mira a conoscere Dio, l’Assoluto, cercando di rimuovere l’ignoranza, l’illusione, la verità parziale. La causa del Samsara (ciclo delle nascite e delle morti) e della sofferenza come già detto è per la filosofia indiana da identificarsi con l’ignoranza (Avidya); essa agisce come un velo (Maya), che impedisce all’Essere di percepire la sua vera natura. Il percorso del Jnani consiste nell’abbattere questo velo d’ignoranza, principalmente per mezzo di una costante indagine ed esercizio di discriminazione di ciò che è reale da ciò che non lo è, ossia il non Essere dall’Essere.
Grazie alla meditazione costante e alla conoscenza di aspetti filosofici, egli comprende la sostanziale unità dell’Atman “essere individuale” con il Brahman “Dio o essere universale”, e realizza perciò di essere tutt’uno con l’Assoluto. Questo cammino però non deve essere inteso solo come un sapere intellettuale ma si tratta di comprendere quanto enunciato attraverso l’esperienza diretta.
Il Jnana Yoga è identificabile quindi con la strada del discernimento immediato. E’ una strada fatta di silenzi, intuizioni, illuminazioni, visioni, distacco, spassionatezza, che penetra i misteri ultimi della realtà e opera con le Idee e princìpi ideali sintetici archetipali. E’ una via di solitudine e astrazioni che ha alcune caratteristiche:
E’ la via del filosofo intuitivo-contemplativo, del metafisico, non del teologo/intellettuale.
Man mano che il discepolo rimuove ciò che non è, vive e incarna ciò che è. Lo Jnani cerca di svelare la Verità ed essere la Verità.
Jnana è anche studio.
Studio dei testi sacri ma non solo intellettualmente. E’ anche e soprattutto, alla luce di quanto esposto, comprenderli col cuore e farli propri. Viverli poi ogni giorno. Rendere vivi gli insegnamenti, incarnandoli.
Si rifà ai testi vedantici e alle Upanisad, all’Advaita Vedanta.
I tre mezzi di cui si avvale principalmente lo Jnani:
Ascolto
Riflessione
Meditazione
Grandi Jnani sono ad esempio Ramana Maharshi, M. Nisargadatta, Mooji, Papaji…
Hatha Yoga:
Hatha yoga pradipika
Le origini dell’Hatha yoga risalgono alla stesura dei primi Tantra – i testi classici del pensiero induista in cui vengono annoverate le pratiche e le regole di condotta per arrivare alla liberazione – ma la sua sistematizzazione vera e propria, secondo alcune scuole, si deve al mistico Gorakhnath, vissuto tra l’XI e il XII secolo, discepolo di Matsyendranath, che si dice fondatore di uno yoga incentrato principalmente su pratiche psico-fisiche.
Più che una dottrina filosofica è quindi un metodo pratico, disciplina psicofisica basata principalmente su asana e pranayama. Il potere di «immobilità» fisica nell’Hatha Yoga è importante quanto l’immobilità delle Vritti nel Raja Yoga. Consiste nell’assorbire più prana, imparare a non disperderlo e usarlo nel modo migliore.
Nei suoi testi si teorizza che attraverso la rigida disciplina – sadhana – volta al dominio del corpo e al controllo della mente, può essere stimolata la fusione tra il sé individuale e il sé universale, meta ultima dello Hatha yoga.
Prima di tutto sostituisce al precedente concetto upanisadico del corpo come centro di sofferenze, con una visione più positiva nei confronti della vita fisica, considerando cioè il corpo come uno strumento di grande, grandissimo valore nella via di emancipazione della persona.
Secondariamente integra in sé gli aspetti psicofisici con la dimensione spirituale.
In ultimo, con la sua grande attenzione data al corpo, ha sviluppato una profonda ed elaborata anatomia sottile, nella quale hanno sede il già ricordato prāṇa (forza vitale), i chakra (i diversi punti focali della forza vitale nel corpo sottile) e l’energia del serpente (kuṇḍalinī-śakti).
Hatha, letteralmente significa sforzo violento, ma il suo significato è più complesso. La parola è composta da ha (sole) e tha (luna), anche riferendosi al passaggio dell’aria nella narice destra (assimilata al sole) e nella narice sinistra (assimilata alla luna). Quindi lo Hatha Yoga vuole rappresentare l’insieme dei due respiri. Possiamo vedere nei due astri – il sole e la luna – il maschile e il femminile, le energie Siva e Shakti, il caldo e il freddo, il giorno e la notte, il cuore e la ragione, la testa e la “pancia”…Energie che tramite la pratica vengono unificate.
I testi dello Hatha Yoga:
L’Hatha Yoga Pradipika fu scritto all’incirca nel quindicesimo secolo dopo Cristo, da Svātmārāma, del quale sappiamo poco più che il nome. L’Hatha Yoga Pradipika è un manuale di pratica, un testo empirico ed operativo che fornisce indicazioni su come svolgere le diverse tipologie di esercizi.
Si compone di quattro libri.
Il primo libro espone il lignaggio, le raccomandazioni per il luogo della pratica, le posture del corpo (asana) e alcune norme alimentari.
Il secondo libro descrive gli esercizi di controllo dell’energia e del respiro (pranayama) e le pratiche di purificazione interna (shatkarmas).
Il terzo tratta l’energia kundalini, i canali di energia (nadi), l’incanalamento dell’energia attraverso di essi (mudra) e l’incanalamento attraverso particolari chiusure del corpo (bandha).
Il quarto ed ultimo libro espone il ritiro dei sensi (pratyahara), la concentrazione (dharana), la meditazione (dhyana) e il samadhi
Di tutti gli esseri che vivono in natura, solo l’uomo lavora per un compenso, solo l’uomo vuole trarre vantaggio e beneficio dalle azioni svolte, agisce per motivi egoistici e deve avere un tornaconto, se cosi non è tutti gli sforzi sono vani e la sofferenza inizia e fino a quando non otteniamo un merito o vantaggio quel pensiero non ci abbandona nemmeno nel sonno.
Ma dove siamo noi nel nostro corpo? E’ possibile dire “siamo qui” piuttosto che “lì”?
Chi siamo noi?
Se crediamo di essere il corpo, le nostre azioni si colorano di Egoismo e questo ottenebra la mente. Occorre quindi agire non più per sé stessi bensì con la consapevolezza che noi non siamo questo corpo.
Il Karma Yoga è il sentiero “dell’agire senza agire” o del distacco dai frutti dell’azione. Ciò implica determinarsi con un atto di pura azione senza attaccamento. L’individuo comune agisce mosso dal desiderio di avere, il discepolo di questo sentiero agisce senza desiderio di ricevere. E’ lo Yoga dell’azione (karma) insegnato dalla Bhagavadgita.
1. “O Janardana, se Tu consideri la conoscenza superiore all’azione, allora perché – o Keshava vuoi che m’impegni in questa terribile azione?
2. “Con queste parole apparentemente contraddittorie Tu stai, per così dire, confondendo il mio intelletto. Ti prego, fammi conoscere con certezza l’unica cosa mediante la quale potrò raggiungere il bene supremo”. Il Signore Cosmico disse:
3. “O Senza Peccato, all’inizio della creazione Io diedi al mondo la duplice via della salvezza. Il sentiero dell’unione divina attraverso la saggezza Jnana-yoga), per i saggi (i seguaci del Sankhya); il sentiero dell’unione divina attraverso la meditazione attiva (karma-yoga), per gli yogi.
4. “Nessuno raggiunge lo stato dell’inazione evitando di compiere azioni. Nessuno raggiunge la perfezione rinunciando semplicemente all’azione.
5. “In verità nessuno può rimanere neppure un momento senza agire; perché invero tutti sono ineluttabilmente costretti all’azione dalle qualità (guna) nate dalla Natura (Prakriti).
6. “L’individuo che controlla con la forza gli organi dell’azione, ma la cui mente ruota intorno ai pensieri degli oggetti dei sensi, viene chiamato ipocrita, uno che inganna se stesso.
7. “Mentre l’uomo che disciplina i sensi con la mente, senza attaccamento, mantenendo saldamente i suoi organi d’azione sul sentiero del karma yoga, questi – o Arjuna – ha grande successo.
8. “Compi le azioni che costituiscono il tuo sacro dovere, perché l’azione è migliore dell’inattività. Anche il semplice mantenimento del corpo sarebbe impossibile senza attività.
9. “Le persone del mondo sono legate karmicamente da attività diverse da quelle fatte come yajna (riti religiosi). O Figlio di Kunti, agisci perciò senza attaccamento, nello spirito dello yajna, offrendo le azioni come oblazioni.
Cap 3 Bhagavadgita
Questo tipo di azione, è ovvio, non è mosso dalla sfera dell’individuale né diretto all’individuale. L’abilità del discepolo di questo tipo di yoga consiste nel far morire l’io empirico, con i suoi contenuti di possesso e di acquisizioni, e nell’innestarsi al Principio per fini universali. E’ lo yoga delle persone di azione, delle istanze dirette all’agire nei vari campi dell’attività umana. Il discepolo diviene così strumento del volere divino assecondando il processo del divenire, comprendendo i sui ritmi e le sue modalità operative.
L’azione del Karma yoga esige lo slancio salutare della completa dedizione, della fedeltà e della devozione alla volontà dell’Essere universale; nella lotta per l’ideale e la giusta causa il candidato effettua la rottura di livello dell’io con impeto di sacrificio e d’immolazione.
Il karma yoga è dunque un metodo etico e religioso il cui scopo è quello di farci raggiungere la libertà attraverso l’altruismo e le buone azioni. Il karma-yogi non ha bisogno di credere in Dio, può anche non domandarsi che cosa sia la sua anima, può anche non legarsi ad alcuna speculazione di ordine metafisico. Il suo scopo essenziale è quello di liberarsi dall’egoismo e di giungervi attraverso le sue stesse forze…
Così la sola soluzione consiste nel rinunciare ad ogni frutto dell’agire, ed essere da questo distaccati… Quando un uomo può far ciò egli sarà un Buddha e troverà in sè la forza di lavorare in modo tale da trasformare il mondo. Quest’uomo rappresenta l’ideale più elevato del Karma Yoga.
Il karma yoga è uno yoga quindi non personale, è in contatto con gli altri e con il mondo. E’ sullo spunto del karma yoga che cominciamo a trasformare la nostra vita in qualcosa di spirituale. Spesso ci ritroviamo a ritagliarci del tempo per praticare in una vita frenetica fatta di impegni, di lavoro, di relazioni… Ma perché non usiamo invece questo tempo, che è in realtà la stragrande maggioranza del tempo delle nostre vite, e lo rendiamo spirituale? Perché non usare la vita stessa, l’azione come strumento per arrivare a Dio, per rimanere in contatto con Dio?
Abbandonare l’idea di ricercare questo o quello. L’azione avviene e la dobbiamo compiere affidandola a Dio.
Realizzare che noi non siamo l’Agente, ma solo osservatori. Anche se sembra che siamo noi a fare questo o quello è in realtà la Prakriti che agisce, mentre noi dallo stato del Purusa siamo l’imperituro osservatore. Mantenere questa consapevolezza nella vita conduce ad un agire puro, dove scompare l’agente e siamo totalmente nel flusso di Dio e della vita. La vita scorre attraverso la Prakriti della nostra natura materiale mentre noi restiamo equanimi osservatori. L’azione stessa diventa quindi venerazione e adorazione del divino.
Vivekananda ci offre alcuni spunti su come possiamo lavorare come discepoli del karma yoga.
lavorare sul mantenere l’osservazione (il testimone). Assomiglia al Jnana Yoga. “Quando vedi l’azione nella non azione e la non azione nell’azione” vuol dire che non bisogna sottrarsi al mondo e ai nostri doveri per realizzare la non-azione bensì togliere l’Ego dalle nostre azioni. Non verranno quindi fatte per l’Ego (la persona), e se non c’è un “io” che compie l’azione scompare l’azione stessa che non produrrà più karma.
Offrire le azioni a Dio (che da un certo punto di vista assomiglia alla via Bhakti). Esternamente si possono fare le stesse cose di sempre ma non importa cosa si fa ma come lo si fa. Prima di ogni azione si può dire: “Dio ti offro questo agire” e rammentarsi un paio di volte durante l’azione e al suo termine concludere offrendo ancora tributo a Dio. Si vive come se tutto ciò che ci circonda fosse Dio. Quando si parla agli altri, ci si relaziona, lo si fa con la consapevolezza che ognuno è Dio e che Dio è in ogni cosa.
Prapatti – Arresa completa a Dio. Lasciare a Dio il timone della nostra nave, affidarsi completamente a lui. Non resistere agli eventi, qualunque essi siano, ma offrirli a Dio. “Dio sia fatta la tua volontà non la mia”.
Vivere gli eventi come se fosse un gioco divino. Tutto è un gioco di Dio, anche le sofferenze, il dolore…tutto è un gioco. Tutto può essere trasformato in una danza in cui noi assistiamo osservatori alla danza di Dio e della natura che si svolge davanti ai nostri occhi. Ciò permette di conseguire una mente equanime sia nella gioia sia nel dolore.
Bhakti Yoga:
Yoga della devozione, è la via dell’unione con Dio per mezzo di una devozione profonda ed è uno dei rami principali della tradizione yoga dell’Induismo essendo la strada più percorsa. Secondo il Bhagavata-Purana ci sono molti sentieri di Bhakti Yoga a seconda delle diverse predisposizioni del praticante. Tra i vari cammini “marga” questo è detto essere il più diretto è semplice, non richiede grandi capacità intellettive o attitudini particolari. Il Bhakti Yoga è intenso amore per Dio: amore trascendentale.
Il principio del Bhakti Yoga è l’utilizzazione degli abituali legami della vita, caratterizzati dal gioco delle emozioni, per “impossessarsi” dell’Amato. La meditazione e gli stessi atti rituali non servono ad altro che ad aumentare l’intensità del contatto divino.
La parola bhakti deriva dalla radice bhj che significa “rendere onore”, “culto”, “servizio”, quindi porsi al servizio della Divinità con totale dedizione e abnegazione. Il discepolo che sperimenta questo approccio al Divino espande sempre più il suo sentimento fino a sentire realmente la Divinità in sè. E’ la strada di coloro che sentono l’amore per Dio così intensamente da voltare le spalle a qualunque allettamento del mondo. Per amore del Padre i devoti sanno amare tutto ciò che il padre ama: “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
Questo passaggio ricorda molto uno degli atteggiamenti bhakti consigliati anche per chi segue la via del Karma.
La bhakti, o servizio di devozione, ha in sé il potere di sciogliere il corpo sottile dell’essere individuale, come il fuoco presente nello stomaco digerisce tutto ciò che mangiamo.
SPIEGAZIONE
La bhakti è situata molto al di sopra della mukti, perché il servizio di devozione permette automaticamente all’uomo di liberarsi dalla prigione materiale.
Abbiamo qui l’esempio del fuoco che, nello stomaco, digerisce tutto ciò che mangiamo. Se il potere digestivo è sufficiente, tutti gli alimenti che ingeriamo saranno digeriti dal fuoco dello stomaco. Similmente, il devoto non ha bisogno di fare altri sforzi, separatamente dal servizio di devozione, per raggiungere la liberazione. Il servizio di devozione offerto al Signore Supremo rappresenta, in sé stesso, il metodo che lo porterà alla liberazione, perché impegnarsi nel servizio del Signore significa liberarsi dai legami materiali.
Sri Bilvamangala Thakura ha spiegato molto bene questa situazione dicendo: “Se ho una devozione incrollabile per i piedi di loto del Signore Supremo, la mukti, la liberazione, si mette a mia disposizione come un’umile servitrice, pronta a soddisfare tutti i miei desideri.”
Per un devoto la liberazione non rappresenta un problema, perché egli la ottiene automaticamente, senza sforzi separati. La bhakti, dunque, supera di gran lunga la mukti, il livello raggiunto dagli impersonalisti. Costoro praticano severe austerità e penitenze per raggiungere la mukti, mentre il devoto, semplicemente seguendo la via della bhakti, e in particolare cantando:
e rispettando i resti del cibo offerto al Signore Supremo, acquisisce subito il controllo della lingua. Se la lingua è controllata, anche tutti gli altri sensi saranno automaticamente sotto controllo. Il controllo dei sensi è la perfezione dello yoga, e l’essere trova la liberazione non appena s’impegna al servizio del Signore. Kapiladeva conferma dunque che la bhakti, il servizio di devozione, è gariyasi, più gloriosa della siddhi, la liberazione.
La Bahkti si divide in aparabhakti e parabhakti, vale a dire bhakti non suprema e suprema. La prima riguarda i piccoli misteri e opera sul piano della purificazione, dell’attivazione di qualità etiche, di armonizzazioni psicologiche, ecc. La parabhakti opera sul piano della trasfigurazione di sé fino a raggiungere la “perfezione del Padre” e l’identità con Lui. Si può dire che la prima è exoterica mentre la seconda esoterica, la prima si esprime nel campo individuale, sia particolare che generale, la seconda in quello neoetico, universale o del Principio. La prima riguarda l’ascetica, la seconda la mistica pura.
Il termine bhakti, abbiamo visto, significa partecipazione, devozione, donazione; e la donazione-devozione avviene mediante l’amore (prema). La bhakti è dunque il dono di sé al Padre per amore. L’amore è l’opposto dell’egotismo, egotismo che ha determinato la scissura; il rifiuto dell’unità e l’aderenza al molteplice, al particolare e all’individuale hanno l’uomo a scindersi dal Tutto e costituirsi come parte, come singolo tra singoli, in contrapposizione al Principio.
Anche il bhakti yoga è un percorso in tappe. Le prime preparano alla morte dell’io tramite la purificazione da tutte quelle dissonanze che oscurano e velano la vibrazione dell’Amore-principio trasformandolo in ottava più bassa nell’amore di sé, in desiderio. La purificazione non comporta solo il potenziare qualità morali (soggettive, psicologiche) ma implica anche trasformare lo stato vibratorio dell’intera personalità. Dopo la purificazione ne segue una trasfigurazione che rende l’individualità tersa e innocente, luminosa. Questa fase implica profonda interiorizzazione, solitudine e silenzio mentale. Si tratta di saper accordare l’orecchio alla musicalità sottile, superfisica del Cristo interiore. Ciò è anche opera di invocazione, evocazione, precipitazione e stabilizzazione del suono universale nel proprio cuore. Ciò significa che i due centri del cuore e della mente (anahata e ajna) si stanno armonizzando, coordinando e integrando: la mente e il cuore si fondono, l’amore è compenetrato dalla sapienza e la sapienza dall’amore.
Successivamente può morire l’intero complesso egoistico-individuale.
“Nessuno è ricco di Dio se non è costantemente morto a sé stesso, spogliato di sé stesso in Dio” (Meister Eckart)
Questo vuol dire che l’essere percepisce che è solo vibrazione d’amore, non è né un’individualità con dei corpi né un ente particolare; è solo amore vibrante perché il Supremo è suono coesivo, armonico accordo tonale svelante onnicomprensione, è centro dell’universo, è la nota fondamentale risuonante nello spazio, è mantra osannante. Non è questione di vedere o uscir fuori di sé, ma di essere; non è questione di osservare la forma-effige-immagine dell’Amato, occorre essere vibrazione cristica d’amore.
Successivamente il devoto, spogliato di Sè stesso, sentirà Dio vivere in lui ed agire al suo posto. Questa fase rappresenta il rapimento dell’amante per l’amato, il realizzare le nozze celesti; la coscienza si porta sempre più alla fonte stessa dell’amore fino a un punto di fusione, di unione.
Consigli per il praticante
Alla luce di quanto detto è bene dire che queste vie non sono antitetiche alternative l’una all’altra bensì possibilità di approcci alla stessa Via. Si intende che il Praticante potrà sentire sì più afflato verso un approccio piuttosto che un altro ma non è da intendersi preclusa l’opzione di avvicinarsi e simpatizzare per più di una via (marga).
Senz’altro lo sperimentare diversi approcci aiuta a trovare il proprio ma permette anche più elasticità mentale. Quando si sceglie una via è importante dirlo non “si sposa” un approccio ad vitam, cerchiamo di non costruirci attraverso il marga scelto una prigione mentale che ci allontana ancor di più dalla libertà anziché avvicinarsi. Si consiglia di mantenere sempre la mente fluida, capace di adattarsi ai cambiamenti interni, agli spunti che arrivano dalla vita stessa e la freschezza di saper prendere il lavoro fatto, in qualsiasi istante della vita, gettarlo via per ricominciare.
Nulla viene mai perso, solo la nostra capacità di vedere l’Ego che tenta di nascondersi anche in queste strutture mentali.
Yoga Sutra di Patanjali: essenza del Raja Yoga o Yoga Regale
Introduzione e panoramica
Questo darsana è composto da 196 aforismi divisi in 4 libri. Gli aforismi arrivano nella loro versione definitiva nel V-VI secolo d.C. ma sono la riorganizzazione di materiale più antico e risalente al II-III secolo a.C. Gli Yoga sutra sono attribuiti a Patanjali ma sulla sua figura si sa poco. Ci sono diverse opere che recano il suo nome ma non si sa se sia sempre lui e alcuni credono che ci siano state diverse persone a portare il suo nome. Come accade per tutti o la maggioranza dei testi indiani non sono meno importanti i commentari. Nel corso dei secoli diverse persone hanno interpretato i sutra e secondo la loro realizzazione e conoscenza hanno tentato di declinarli in un linguaggio più semplice e più vicino al lettore.
L’importanza dei commentari
Tra i commentari antichi agli Yoga Sutra più importanti troviamo:
Yogabhashya di Vyasa (stesso autore del Mahabharata)
Nei commentari medievali abbiamo degni di menzione
Tattvavaiśāradī di Vacaspati Misra (stesso autore del Kaumudi – X secolo d.C.)
Raja-Martanda di Re Bhoja (XI sec. d.C.)
Mentre i commentatori moderni più importanti sono:
Questi sono solo alcuni dei commentari ai sutra esistenti, redatti da persone o praticanti che si sono apprestati a dare la loro chiave di lettura del testo. E’ importante avvicinarsi quindi al testo con la consapevolezza che si presta a diverse interpretazioni e significati e che, seppur trattando dello stesso argomento, posso variare anche molto nella forma e talvolta anche nella sostanza.
Il sanscrito inoltre, lingua in cui i sutra sono stati scritti, è una lingua che si presta a diverse interpretazioni. Infatti alcuni termini assumono significati diversi a seconda del contesto o della profondità del Praticante di coglierne l’essenza. La scelta che l’autore fece nell’usare un termine piuttosto di un altro e del commentatore poi di tradurlo con un termine piuttosto che un altro e di interpretare successivamente quanto tradotto rende l’idea della complessità dell’operazione a livello linguistico.
A tutto questo si aggiunge il fatto che gli yoga sutra di Patanjali trattano in modo dettagliato di temi per i quali ci troviamo presumibilmente sguarniti in fatto di vocaboli. Se è semplice mettersi d’accordo su quale vocabolo usare per indicare una penna e poca confusione si può fare nella sua traduzione in altre lingue, altra cosa è trovare i termini giusti quando si parla di Dio, di anima, di illuminazione, di stati realizzativi e di assorbimento progressivi durante la meditazione stessa.
Risalire quindi a ciò che intendeva Patanjali quando li scrisse è tutt’altro che impresa facile e la trattazione dell’argomento o la sua lettura qui esposta quindi deve imprescindibilmente essere intrapresa con la consapevolezza che non si vuole in nessun modo farsi portatori di un messaggio o di una verità che si ritiene acquisita. Verrà invece esposto solo una sfumatura di quanto si può trovare sull’argomento, a volte citando alcuni autori altre interpretando gli stessi commentari secondo la conoscenza acquisita attraverso lo studio e la pratica personale.
Presentazione dei 4 libri
Cominciamo la trattazione con una panoramica sui quattro libri:
1. Libro dell’enstasi – delinea il processo dello Yoga e i diversi gradi
2. Libro del metodo – individua i vizi originali e traccia il celebre cammino in 8 stadi (ashtanga Yoga)
3. Libro delle facoltà soprannaturali – si esamina la concentrazione Yogica e i suoi effetti
4. Libro dell’isolamento – si analizza la natura dei condizionamenti subcoscienti e l’isolamento del Sè conseguente alla loro soppressione per mezzo dello Yoga.
Lo yoga di oggi non è quello delle origini
Di questi quattro libri, quando si parla degli yoga sutra di Patanjali quello che tutti, o i più, conoscono dell’argomento sono gli 8 anga dello Yoga presentati al sutra 29 del secondo libro: Yama-niyama-asana-pranayama-pratyahara-dharana-dhyana-samadhi e questi “anga” o membri dello yoga sono più o meno approfonditi dal sutra 29 al sutra 51 del secondo libro.
Nel senso che quello che si conosce solitamente dello Yoga, ossia i primi 4 anga, sono trattati in 22 sutra su 196.
Le asana vengono trattate in 3 soli sutra, il pranayama in altri 3.
Lo ridico: le asana, le posizioni alle quali noi diamo tutta questa importanza, sono trattate in soli 3 sutra su 196 e non vengono descritte negli allineamenti come accade invece nei manuali d’oggi alle quali viene destinata la porzione più ampia del testo.
E questo ragionamento terra terra fa capire che per Patanjali praticare le posizioni (asana) dello yoga non è “Yoga” ma una parte (3/196) di quanto lui ci ha detto/trasmesso sull’argomento. Questo è bastante per dire che se nei corsi di yoga, che si avvalgono di tale nome, venisse intrapresa davvero la via dello Yoga di Patanjali, probabilmente gli amanti delle asana abbandonerebbero la Pratica e i corsi si svuoterebbero nel giro di 2 settimane massimo. Inoltre lo Yoga proposto da Patanjali essendo principalmente psichico-introspettivo-meditativo non troverebbe vasto seguito nel pubblico occidentale troppo abituato ad un sapere fatto di soli assaggi, restio allo studio approfondito e costante di testi di difficile comprensione e amanti invece di pratiche superficiali prettamente fisiche che invece di minare la natura dell’Ego per farlo saltare del tutto lo corteggiano per compiacerlo ed esaltarlo.
Sankhya Karika e Yoga Sutra di Patanjali
Si è già fatta menzione nell’articolo sul Sankhya che gli Yoga sutra sono da considerarsi come la parte Pratica, il metodo per realizzare quanto descritto dal sistema Sankhya. Troviamo quindi negli Yoga Sutra (12-26, I) un’altra esposizione dei temi cari trattati dalla Sankhya Karika ossia si parla di:
Karma e ciclo rinascite (ripresa poi in modo ampio e diffuso anche dal libro IV)
Impressioni, merito e demerito
i 3 guna: Sattva, Rajas e Tamas
Prakriti e Purusa
L’ignoranza
L’isolamento
La conoscenza discriminativa imperturbata
Nel libro dell’enstasi (samadhi, libro primo) si tratta delle funzioni mentali che come spiega Re Bhoja sono:
Conoscenza valida
Errore
Astrazione
Sonno
Memoria
a questo punto non possiamo non notare le somiglianze con il Sankhya e con il Nyaya da cui sembra riportare l’analisi sul funzionamento mentale. Certo è che gli Yoga Sutra non perdono occasione di ribadire (12, I) come le funzioni mentali vengano inibite, ossia con l’esercizio e con l’impassibilità (termine già incontrato quando abbiamo parlato del Sankhya). Per esercizio si intende lo sforzo di conseguire la stabilità in cui la mente riposa nella sua essenza libera dalle funzioni mentali.
Differenti stati mentali
I differenti stati mentali Re Bhoja li riconduce sempre a cinque tipi ossia
Irrequieto – eccesso di Rajas
Ottenebrato – eccesso di Tamas
Distratto – eccesso di Sattva
Unintenzionale – concentrazione fine su un oggetto
Inibito – tutte le funzioni si dissolvono
Se i primi tre li definisce non adatti allo Yoga è il quarto e il quinto che rappresentano l’enstasi (Samadhi) con seme e senza seme (come spiegato più avanti).
Dal Sankhya allo Yoga Sutra
Se il Sankhya ci ha parlato di un cammino a ritroso attraverso l’indagine per risalire dal particolare all’indifferenziato, per arrivare alla Bhuddi e da là il salto per ritornare al Purusa (ossia, permettere al Purusa di specchiarsi nella Bhuddi ormai svuotata da altri oggetti in modo che si riconosca tale) ecco che lo yoga sutra riprende tale percorso parlando degli attributi dei guna.
Quindi il percorso del Sankhya, letto attraverso gli Yoga Sutra, verrebbe a completarsi come un percorso a ritroso nelle qualità dei guna che da una qualità più definita e particolare (visesa) si passa alla realizzazione delle qualità non particolari (avisesa) per astrarsi ad un linguaggio simbolico dei lingamatra. Dal lingamatra c’è il salto per realizzare la sostanza originale in cui i tre guna coesistono in perfetto equilibrio tra solo, ossia mula prakrti o Pradhana. Se lo Yogi riesce nel suo slancio meditativo a compiere l’ulteriore salto verso la liberazione o kaivalya raggiungerà lo stato di Purusa Tattva altrimenti resterà un Prakrti-laya.
Enstasi – Samadhi
Con la parola “enstasi” Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, nel suo classico studio “Tecniche dello Yoga”, ha inteso tradurre il termine sanscrito “samadhi“. Samadhi significa, secondo lo stesso Eliade, “unione, totalità; assorbimento in qualcosa, concentrazione totale dello spirito, congiunzione”. La traduzione “enstasi” è in chiaro contrasto con la traduzione “estasi”, ossia ek-stasis, uscire fuori, preferita dalla tradizione mistica occidentale da Plotino in poi.
Si intende porre l’accento proprio sul fatto che lo yogin, al culmine della concentrazione interiore, dopo aver portato a compimento la disciplina del corpo e della mente, si trova sì fuori di sé, del suo piccolo sé identificato con le esperienze e con le memorie corporee, ma in realtà questa uscita e questa espansione accadono all’interno della sua stessa coscienza. “Chit“, la coscienza, appare allora come un’unità indistinta con “sat“, l’essere, e “ananda“, la beatitudine. “Satchitananda“, lo stato dell’essere umano rivelato dal samadhi, è certamente una delle più belle espressioni tramandate dalle Upanishad per definire l’esperienza del divino. Si può pensare di avvicinarsi a una tale esperienza solo imparando a calmare il corpo, il respiro e la mente, per lasciar rifulgere la coscienza di luce propria.
Libro dell’enstasi, discussione sui primi due versi
verso 1
Ora l’insegnamento della disciplina dello Yoga
In questo primo verso emerge chiara l’idea dello yoga fatto nel presente, nel qui ed ora, dato dalla parola hatha che significa “adesso”. Da qui l’importanza di stare nel presente con la mente. Troppi sono i praticanti che credendo di fare yoga si perdono invece nei loro pensieri.
Quella è ginnastica! Per quanto bella, se non c’è il lavoro della mente rimane una ginnastica. Lo yoga punta moltissimo ad uno stato di attenzione e osservazione continua che necessita quindi di un silenzio mentale, prerequisito per un verso ascolto e osservazione consapevole. Diventa fondamentale quindi ritrovare un centro che ci porti ad avere una certa stabilità. Anche la parola disciplina emerge forte da questo sutra. Si rimanda alla semantica, ossia al termine disciplina che viene da discepolo.
La disciplina non ha alcun connotato negativo o di rigidità, quale invece è consono attribuire nel mondo occidentale. La disciplina spiega il “come fare” ad un discepolo che ascolta ai piedi del maestro. L’ascolto diventa quindi caratteristica fondamentale per poter imparare e deve necessariamente essere un ascolto “vuoto”, nel senso che occorre creare un vuoto nella mente per poter veramente capire cosa ci sta dicendo chi ci insegna. L’ascolto attivo quindi presuppone un lavoro di controllo del pensiero meccanico che tenderebbe meccanicamente per analogie a prevedere cosa vuole comunicarci chi ci sta di fronte. Lo yoga quindi ci spinge ad uscire dalla meccanicità di pensiero, emozione e corpo. Proprio attraverso le posizioni è necessario adattare il corpo alle posizioni e non le posizioni al corpo.
Verso 2
Lo yoga è la sospensione delle modificazioni della mente
Cos’è citta? Cosa sono le vritti? Possiamo immaginare citta come l’oceano e le Vritti le onde. Le Vritti sono fatte della stessa sostanza dell’oceano. Continuano ad arrivare, cambiare, mutare. Increspano la superficie del mare ma non sono diverse dalla sostanza di Citta. Non esiste un esatto equivalente del termine citta nelle lingue occidentali. Molti commentatori hanno tradotto citta con mente, ma ciò non è esatto. L’equivalente sanscrito che più si avvicina al nostro mente è manas
Citta
Cos’è citta?
E’ la sostanza mentale in cui si condensa la Pura Coscienza – Cit
Il pensiero individuale e formale
La facoltà che dà forma alle idee e le associa tra loro,
Una delle quattro facoltà dell’organo interno o antahkarana (oltre a buddhi, ahamkara e manas)
Ricettacolo di tutti i ricordi o impressioni e di tutte le tendenze o semi (seme) mentali (samskara).
Citta Vritti Nirodah verrà a significare quindi: assenza di modificazioni nella sostanza mentale, assenza di oggetti-dati nella mente, estinzione del contenuto mentale ed immaginativo, stato di consapevolezza senza contenuto vissuto a livello di veglia.
Nell’immagine possiamo immaginare il grafico in azzurro come i pensieri che costantemente abbiamo, in forma di immagini o parole, consapevoli o meno, nella nostra mente e possiamo chiamare queste onde Vritti. Ora, se ci pensiamo, nel momento in cui ci rendiamo consapevoli di avere una mente piena di pensieri possiamo anche asserire che la mente e il suo stato mentale è “visto”.
In quanto visto diventa oggetto del verbo vedere e quindi non è il soggetto che vede.
Chi è il soggetto quindi?
Chi è che vede?
Mano a mano che le vritti diminuiscono di numero e la mente si placa l’Essere (SAT), che fino ad un attimo prima era identificato con le vritti (pensava di essere le Vritti) attraverso la consapevolezza (CIT) delle vritti stesse, prende atto che lui continua ad esistere nonostante la mente sia vuota, seppur ad intermittenza.
Comincia ad assaporare, ad immaginare, a rendersi conto che lui è altro da Citta e dalle Vritti.
Quando si raggiunge lo stato di Nirodah ecco che l’essere non ha più alcun dubbio, la sua consapevolezza finalmente svuotata da ogni contenuto può rivolgersi all’interno e scoprire la sua vera natura, come i raggi solari che scoprono la loro provenienza dal sole.
In questo modo si realizza lo stato di Sat Cit Ananda, o Sacchidananda: l’essere che si riconosce nella sua consapevolezza in uno stato di beatitudine.
Lo scopo dello Yoga
A questo punto non possiamo che parlare dello scopo dello yoga, che altro non è che la realizzazione dell’Enstasi attraverso l’attenuazione dei vizi capitali, ossia la Liberazione dal dolore e dalla sofferenza della vita umana grazie all’Isolamento (Purusa che si isola dalla Prakriti).
I vizi capitali e il Kriya Yoga
A questo punto non possiamo che delineare quanto segue. Lo yoga che consta dell’ottuplice sentiero, anche conosciuto come Ashtanga Yoga (ben diverso da ciò che oggi viene praticato sotto questo nome) include e contiene le Pratiche del Kriya Yoga detto anche Yoga Pratico.
Lo Yoga Pratico (Kriya Yoga) è:
1.Tapas (ascesi, eliminazione delle impurità dell’organismo fisico e mentale con il mantenimento di corrette abitudini nel sonno, nell’esercizio, nell’alimentazione, nel lavoro, nel rilassamento, ecc., austerità, persistenza, autodisciplina, pratiche di digiuno, costanza nel seguire la sadhana…) 2.Svadhyaya (preghiera, studio delle sacre scritture, lo studio di sé, autoanalisi introspettiva, recitazione sommessa del mantra OM…)
3.IshvaraPranidhana (dedizione totale al Signore, offerta di tutte le azioni al signore) Lo yoga Pratico è praticabile da tutti, ed è per Patanjali il primo gradino che aiuta e prepara al cammino Yogico vero e proprio. Tutte queste pratiche hanno lo scopo di attenuare i 5 klesa o vizi capitali, e lo fanno assieme a meditazione e conoscenza discriminativa (già vista nell’articolo sul Sankhya e quindi non si ripeterà cosa si intende).
Quali sono i vizi capitali?
Ignoranza: l’opinione che ritiene permanente, puro, piacevole, pertinente al Sé, l’impermanente, l’impuro, lo spiacevole, l’estraneo dal Sè
Illusionedellapersonalità: è confondere Purusa con Prakriti
Passione: è la bramosia che si accompagna alla rievocazione del piacere in chi lo ha conosciuto e che si esplica nella sete di perseguirlo
Avversione: è l’ira piena di deplorazione che si accompagna alla rievocazione del dolore in chi lo ha provato e che si esplica nell’intento di evitarlo
Ostinazionevitale: deriva dalla memoria delle esperienze di morte nelle vite passate. E’ l’attaccamento al proprio corpo e si esprime nell’anelito a non esserne mai disgiunti
Riassumendo: come liberarsi dai vizi originali?
Con lo Yoga Pratico (Kriya) si sottrae la mente alla loro influenza
Con la Conoscenzadiscriminativa sono ridotti allo stato di semi riarsi (non germinano più – detti anche vizi latenti) «tutto non è che dolore per colui che discrimina infatti ogni gioia è in realtà dolorosa, come un cibo avvelenato, squisito sulle prime ma da ultimo fatale»
Con la Meditazione la mente si riassorbe nel suo principio e i vizi sono dissolti
A proposito di dolore
(Yoga sutra II,16-17 riporto per integrale il bellissimo commento di Swami Venkatesananda)“Eppure, non tutto è perduto. Poichè il dolore che non è ancora “arrivato”, che non è ancora giunto sul campo dell’esperienza, può essere evitato; l’infelicità che non ci è ancora giunta può essere evitata, evitando il contatto psichico con essa.”
L’infelicità che ancora non ti ha raggiunto può essere evitata. Questo è un insegnamento sensazionale che ci viene dato; non dire che, siccome sei infelice e coinvolto in questa situazione così complicata, devi continuare ad invitare la sofferenza per tutta la vita. Vi sono persone che vanno a battere la testa contro il muro quando hanno un’emicrania. Ma quel gesto aggrava il mal di testa e quando non lo fanno più, la forma aggravata di mal di testa se ne va e loro fingono che l’emicrania sia scomparsa.
Non è questo che cerchiamo, cerchiamo una maniera con la quale possiamo intelligentemente trattare con la sofferenza che è già sorta nella nostra vita e un modo per fermare quella che non ci è ancora giunta. Questo, lo yogi dice, è possibile. Finché spingi via il dolore, lo stai toccando. Perché vuoi toccare qualcosa che, in ogni caso, si sta allontanando da te? E’ arrivato da qualche parte verso di te e, lasciato a se stesso, allo stesso modo si allontanerà. Lascialo stare, ma utilizza quella situazione d’infelicità in cui ti puoi trovare, per guardare dentro e scoprire il meccanismo che ti ha intrappolato in quella sofferenza. Non vuol dire che devi accogliere con gioia la sofferenza, che devi accettarla o sopportarla (tutti questi discorsi sono irrilevanti alla nostra discussione).
Devi cercare di eliminare il dolore senza uno sforzo. Come puoi farlo? Restando tranquillo ed esaminando l’intera dinamica della sofferenza, del dolore. Osservi direttamente il dolore – cosa completamente diversa dall’analisi. Se analizzi il dolore, questo si moltiplica. Senza analizzare, senza intellettualizzare o creare dei concetti e delle immagini della sofferenza, se osservi direttamente questo fenomeno del dolore psicologico, lo vedi come un’esperienza. È soltanto una divisione psicologica interiore (che uno presume esista) che crea un soggetto dell’esperienza separato dall’esperienza stessa; se non si crea quella divisione psicologica, di conseguenza non c’è contatto psicologico e quindi non c’è esperienza di dolore, di tristezza, come tale.
Ma, nel processo in cui gli occhi vedono, quello che vede (il senso dell’ego) sorge e qualcosa salta su e dice, “io vedo”. Nel momento in cui l’«io» (il soggetto) è sorto in te, questo creerà un oggetto. Sto guardando questa sala intera, quando all’improvviso: “Io vedo lui”. Quest’assunzione di un ego s’inserisce attraverso la pura sensazione di vedere, e suggerisce, “io vedo lui”. La vista vede, ma in quella hai creato un’immagine, un pensiero con una forma, e da qui sorgono tutti i problemi. Sorge prima l’io, poi la vista e poi il ‘tu’? Oppure tu sei già lì, la vista accade e poi all’altro estremo sorge l’io? Qual è esattamente la verità riguardo la semplice esperienza del vedere? Quando questo vedere ha luogo, sorge prima l’io (quello che vede, l’osservatore, il soggetto) – o sorge prima l’oggetto? L’identità del soggetto è indipendente dal pensiero che sorge nel soggetto? L’identità dell’oggetto è una proiezione del soggetto? Sia il soggetto che l’oggetto dipendono dal predicato.
C’è una cosa sola, l’esperienza in se stessa. Quello che era semplicemente uno è in qualche modo stato concepito o percepito come trinità: è assurdo. Cos’è che ti fa vedere tutto questo? Avidyā.”
L’ottuplice sentiero
Prima di cominciare la trattazione dell’ottuplice sentiero mi permetto una bellissima citazione che aiuta a capire appunto il “sentiero”. Semina un pensiero e raccoglierai un’azione, semina un’azione e raccoglierai un’abitudine, semina un’abitudine e raccoglierai un carattere semina un carattere e raccoglierai un destino ( Charles Reade – XIX Secolo )
Yama e Nyama
Questo sentiero comincia appunto col portare l’attenzione ai nostri comportamenti e la nostra relazione con il mondo che ci circonda. (yama e nyama ricordano un po’ i 10 comandamenti anche se le sfumature sono diverse) E le Yama con la quale si apre l’ottuplice sentiero sono appunto i divieti:
1.Ahimsa (mansuetudine, non violenza, considerazione verso tutti gli esseri viventi)
2.Satya (veracità, astenersi dal falso, corretta comunicazione attraverso la parola, gli scritti, i gesti, le azioni)
3.Asteya (onestà, assenza di desiderio per le cose altrui, astenersi dal furto, non bramosia)
4.Brahmacharya (castità, non disperdere l’energia sessuale, moderazione in ogni azione)
5.Aparigraha (povertà, non cupidigia, assenza di desiderio di possesso)
Mentre le Nyama sono le prescrizioni:
1.Saucha (purezza, pulizia, vale a dire conservare il corpo e ciò che ci circonda in stato di pulizia e purezza)
2.Santosha (letizia, contentamento, l’appagamento, contentezza, o facoltà di sentirsi bene con ciò che si ha e ciò che non si ha, moderatezza)
3.Tapas (ascesi, eliminazione delle impurità dell’organismo fisico e mentale con il mantenimento di corrette abitudini nel sonno, nell’esercizio, nell’alimentazione, nel lavoro, nel rilassamento, ecc., austerità, persistenza, autodisciplina)
4.Svadhyaya (preghiera, recitazione mantra OM, studio delle sacre scritture, lo studio di sé, autoanalisi introspettiva)
5.IshvaraPranidhana (dedizione totale al Signore, offerta al signore di ogni azione non desiderando i frutti delle stesse.)
A questo punto i Sutra definiscono Ishvara come uno spirito speciale, immune dai vizi originali e dal Karma. E’ onnisciente e non perfettibile. La parola che lo esprime è l’OM. L’OM è il principio, il mezzo e il fine di ogni cosa. La sacra sillaba è il Signore che dimora in ogni cosa. Si deve praticare, così dicono i sutra, la sua recitazione e la contemplazione del suo significato, in questo modo si può accedere alla conoscenza introspettiva e gli ostacoli scompaiono.
NB1: Si nota come in Ishvara Pranidhana siano contenuti i semi delle vie Bhakti e Karma marga.
NB2: Ricordo che Tapas, Svadhyaya e Ishvara Pranidhana sono i pilastri del Kriya Yoga.
L’OM, la sacra sillaba
(dal commentario di Claudio Biagi) Esso è il solo mantra privo di significato e quindi di aspettative, laddove in ogni altro vi è sempre una esplicita o implicita preghiera. Da questo punto di vista, praticamente tutte le preghiere di ogni religione hanno almeno una traccia di aspettativa o benevolenza da parte della Divinità. OM, o pranava è forse l’unica preghiera dove questo aspetto è del tutto assente.
OM non è altro che un suono o una lettera senza alcun significato particolare. Per questo diciamo che il pranava è la preghiera suprema. Il pranava è composto da tre suoni basici o lettere (matra): A-U-M. Il primo di questi è anche la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, e di molte altre lingue.
Il suono «A» è il primo fra i suoni emessi dalla laringe umana, avente forma definita e quindi rappresentabile da una lettera, senza alcuna modifica della cavità orale; per produrre il secondo suono, la cavità orale deve venir modificata: la «U» è la prima lettera dopo la «A» per la cui pronuncia sia necessario manipolare le labbra e la bocca; l’ultimo di questi suoni, lo «M», è anche l’ultimo suono che si possa produrre, dato che si ottiene tenendo la bocca chiusa. Con esso idealmente l’alfabeto ha fine.
Ha la caratteristica di poter continuare finchè la capacità polmonare lo consente. Essendo anche un suono nasale, esso ha una superiorità rispetto ai suoni labiali, dentali e palatali, che richiedono la partecipazione della lingua. Il pranava AUM contiene quindi tutte le lettere e i suoni di ogni alfabeto.
E’ rappresentato da un unico simbolo e si dice che esso incorpori anche tutti i linguaggi del mondo. Molte tradizioni religiose sostengono che la prima manifestazione della Divinità sia stata in forma di suono o verbo. Probabilmente, gli antichi Rsi, meditando su questo soggetto, giunsero alla conclusione che l’unico suono o verbo capace di soddisfare logicamente e simbolicamente quella caratteristica (di comprendere tutti i linguaggi e suoni umani – cioè non gutturali e non rappresentabili – del mondo) debba essere l’AUM .
L’ AUM (OM) va dunque concepito come la manifestazione della Divinità in forma di suono, e quindi come un mezzo diretto attraverso il quale la Divinità può essere compresa e contattata dirattamente. Come ciò possa avvenire, è spiegato nel sutra seguente (I:28).
Così il japa o recitazione continua del pranava, agisce come una medicina sul citta, rimuovendone le impurità e rendendolo atto a procedere sul sentiero della realizzazione. Il pranavajapa in tal modo agisce come uno stampo o una forma per la mente, che le permetta di attingere gli stati più elevati della concentrazione. Nel pranavajapa, pertanto, si deve far sì che il citta assuma la forma del pranavastesso, diventi uno con esso.
Diversamente da tutti gli altri japa, pranava presenta la minor possibilità di distrazione della mente, in quanto il praticante non deve riflettere su alcun significato ma soltanto lasciarsi assorbire dal suono.
Le lettere costituenti il pranavadevono essere pronunciate molto lentamente una dopo l’altra, con la finale ‘M’ assotigliata e prolungata il più possibile fino a renderla inaudibile (ma senza che ciò provochi bisogno urgente di respirare). Dopodichè lo studente deve restare in un’apnea confortevole per qualche secondo. In tale stato di passività si è ricettivi alle più sottili vibrazione, e prima o poi, comincerà a farsi udire il pranava sorgente da una fonte mistica sconosciuta.
Asana
Gli Yoga Sutra trattano delle asana ai sutra 46,47 e 48.
sutra 46 – sthira-sukhamâsanam
La postura è stabile e agevole. L’âsana deve avere la doppia qualità di vigilanza e rilassamento. Si nota come non venga descritta l’asana! Ad ogni modo, la postura intesa da Patanjali non può che essere a sedere, tenuto conto che il suo scopo è quello di servire agli anga successivi, cioè al pranayama e alla meditazione.
Negli Yoga sutra di Patanjali manca una chiara affermazione che l’asana debba intendersi come postura a sedere, come mancano le istruzioni relative alla sua tecnica, tutte cose tradizionalmente ben note e adottate spontaneamente da ogni sadhaka. Probabilmente Patanjali ha ritenuto non necessario dilungarsi su questi dettagli, preferendo sottolineare le caratteristiche basiche di ogni asana a sedere.
Già la Bhagavad Gita (VI:11-13) e le Upanisad avevano spiegato che le gambe potevano essere sistemate in modi diversi, purchè la schiena ed il collo fossero mantenuti ben eretti, ma senza sforzo. Una tale postura può essere mantenuta a lungo nel modo più rilassato e allo stesso tempo con la mente sveglia e senza il rischio di perdere lucidità. In altre posizioni del corpo (distesi o in piedi) ciò non sarebbe altrettanto possibile.
(Ciò si ottiene) con il rilassamento dello sforzo e l’immedesimazione con l’infinito.
In virtù di un rilassarsi dello sforzo e della realizzazione di Ananta.
Queste qualità possono essere raggiunte riconoscendo e osservando le reazioni del corpo e della respirazione nelle diverse posture che fanno parte della pratica di asana. Una volta conosciute, queste reazioni possono essere controllate passo per passo.
Mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul “senza fine” (si domina una positura).
Con il rilassamento del corpo e la meditazione sull’ananta.
(E ciò è assicurato) quando si allenta lo sforzo (per mantenere la posizione) e quando la mente riflette la condizione dell’infinito.
Commento di C. Biagi riportato per intero: Il sutra menziona gli altri due requisiti essenziali di un asana. Durante il mantenimento della postura
1)egli deve compiere una consapevole diminuzione dell’attività muscolare, fino a sentirsi perfettamente rilassato in ogni parte del corpo. Ciò è detto prayatna-saithilya ed è facilmente ottenibile nelle posizioni usualmente adottate per la meditazione.
2)Deve fondere la sua mente con il principio di Ananta Il termine ananta significa letteralmente ‘’senza fine’’. E’ anche il nome dato al cobra mitologico dei purana, dalla lunghezza infinita, ritratto mentre sostiene il mondo sul cappuccio. Ma in quel termine c’è anche il senso basico di ‘’infinito’’. Ciò che intende Patanjali, in tale processo riguardante l’asana, è che si deve fondere la mente (samapatti) in qualcosa di infinitamente grande, come il cielo o l’oceano. In altre parole, il citta deve venir diretto verso qualcosa di infinito e un tentativo deve essere compiuto di lasciar sciogliere la mente in tale infinità e farla divenire una col tutto. Ciò è stato definito ‘’senso oceanico’’.
sutra 48 – tato dvandvânabhighâtah
Allora si è immuni dalle coppie di contrari.
Da questo, la non ostruzione da parte dei contrari.
Quando questi principi sono seguiti correttamente, la pratica di asana permetterà al praticante di sopportare e anche di minimizzare le influenze esterne sul corpo : età, clima, dieta e lavoro
Da ciò, la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti.
Con ciò si evitano i disturbi derivanti dalle coppie degli opposti.
In seguito cessa il disagio provocato dalle coppie degli estremi.
Ciò avviene perché ogni conflitto psicologico produce invariabilmente delle tensioni corporee e mentali. La pratica di mantenere un asana in condizioni di perfetto rilassamento sia fisico (prayatnasaithilya) sia mentale (anantasamapatti) condiziona il complesso psicofisico a conservare questo stato di equilibrio anche quando si trovi in presenza di fattori disturbanti.
E’ un fatto ben noto che se l’organismo non produce tensioni – le quali sono reazioni di contrasto alle situazioni avverse – gli effetti dannosi di queste ultime non aumentano, ma al contrario tendono ad attenuarsi, fino a scomparire.
Pranayama
Sutra II 49 50 51 52 53 – Pranayama
Curioso anche che negli interi Yoga Sutra al pranayama venga lasciato spazio in appena 5 sutra. E’ possibile comunque ottenere preziose informazioni da queste circa la nostra Pratica personale.
Sutra 49: Trad. lett.: essendo in tale stato (di asana, o di dvandvanabhighata = in assenza di conflitti) l’interruzione (o modificazione) del (ritmo regolare del) movimentodiinalazioneedesalazione (è) pranayama
La pratica di asana quale prerequisito al pranayama è considerata obbligatoria. E siccome tutti gli otto anga dello yoga di Patanjali sono mutualmente facilitatori, è evidente che la pratica di pranayama sarà tanto più effcace quanto maggiore sarà la maestria conseguita in asana (ovvero quanto minori saranno i fattori fisiologici ed emozionali che possano interferire con il controllo del respiro).
Sutra 50 Trad. lett.: (il pranayama presenta tre varietà), (di modalità) esterna, internaesospesa (a seconda di essere) misurata (e regolata) dallaespansione, tempo (e) numero (dei cicli effettuati), (sì da divenire) prolungata (e simultameamente) sottile.
Due possibili interpretazioni dei 3 tipi di Pranayama:
v1) bahya-vrtti, dove la sola esalazione viene assottigliata e prolungata, il resto rimanendo invariato e quindi senza arresto del respiro
v2) abhyantara-vrtti, allo stesso modo, consisterebbe nell’assottigliamento e prolungamento della sola inalazione, senza modificare il resto;
v3) in stambha-vrttila respirazione viene interrotta; se ciò debba avvenire dopo l’inalazione o dopo l’esalazione, non essendolo specificato, viene lasciato decidere dal praticante. Non è specificato nemmeno se l’inalazione e l’esalazione debbano essere prolungate e assottigliate, ma dalla discussione generale sembra desiderabile che queste due fasi abbiano da esserlo anche in stambha-vrttipranayama.
Altra interpretazione:
1)bahya-vrtti, una sospensione del respiro dopo una esalazione prolungata;
2)abhyantara-vrtti, una sospensione dopo una inalazione prolungata;
3)stambha-vrtti, in cui la sospensione del respiro sarebbe l’aspetto dominante, effettuata sia dopo l’esalazione che dopo l’inalazione, entrambe prolungate.
Queste tre varietà di pranayama vengono regolate in base a desa, kala e samkhya.
1. Desa, che signfica zona o espansione, sta per la distanza fino alla quale può essere avvertito il flusso dell’aria, cosa che si può fare ponendo un fiocco di cotone a una certa distanza dalle narici durante l’espirazione; nell’inspirazione tale distanza può essere valutata dal tocco dell’aria – inizialmente una semplice sensazione di freddo – all’interno delle narici, e in seguito all’interno del corpo in forma di pressione, stimolazione, ecc.. In tali esperienze interne, la sensazione è prodotta più mentalmente, cioè dagli impulsi pranici, che dall’attuale contatto-frizione dell’aria. Perciò accade spesso che la sensazione si spinga fino a zone inaccessibili anatomicamente al respiro, come l’ombelico o la fronte, ecc. maggiore la forza del respiro, più grande sarà desa, lo spazio in cui il movimento dell’aria o del prana verranno percepiti. Desa si applica solo all’inspirazione e all’espirazione, mentre nella sospensione del respiro, desa non è valutabile.
2. Kala significa tempo, in riferimento alla durata di un intero ciclo respiratorio nel pranayama. Patanjali non fornisce alcune precisa unità di misura per la regolazione delle fasi pranayamiche, né le relative proporzioni. Usualmente la fase di sospensione è la più lunga delle tre, e l’espirazione sempre più lunga dell’inspirazione. Le classiche proporzioni della tradizione Hatha sono 1:4:2, da raggiungere però molto gradualmente (1:2:1, 1:2:2, ecc).
3. Samkhyasignifica numero e si riferisce al numero di cicli da effettuare. Maggiore il numero dei clcli, più intensi ed efficaci saranno gli effetti del pranayama. Anche questo fattore deve essere aumentato gradualmente. sutra 51 Trad. lett.: la quarta (varietà di pranayama è quella che) non riguarda (le modalità) esterna (o) interna (della respirazione). La differenza rispetto allo stambhavrtti citato nel sutra II:50 consiste nel fatto che in questa quarta varietà l’arresto del respiro avviene spontaneamente. E’ opportuno a questo punto riassumere i punti salienti della nostra discussione sul pranayama:
Il pranayama deve essere praticato in una posizione a sedere appropriata, proferibilmente dopo aver realizzato una sufficiente padronanza di tale tecnica.
Il Pranayama è un gativiccheda, cioè un arresto di svasa-prasvasa ovvero della normale respirazione ritmica. Pertanto, è da considerarsi una modificazione o alterazione del modo normale di respirare. Questa modificazione deve attuarsi nel prolungamento e assottigliamento del respiro, senza alcuno sforzo di alcun tipo.
L’arresto o cessazione della respirazione è la fase più caratteristica e importante del pranayama. Le varietà di pranayama che includono tale arresto sono quelle che producono i migliori risultati, specialmente dal punto di vista psico-spirituale; ma questa sospensione del respiro (kumbhaka) è una pratica pericolosa e può intraprendersi solo quando il sadhaka sia in grado di prolungare l’esalazione a 30 secondi o più senza avvertire il minimo senso di soffocamento.
Anche in tale caso, la sospensione alla fine di una lenta e profonda esalazione è più sicura e va tentata per prima. Solo dopo una sufficiente pratica con tale tipo di sospensione, e quando è lunga e confortevole, egli può provare la sospensione alla fine di una lunga inalazione. Ambedue queste sospensioni non devono superare i 5’’ all’inizio, e vanno incrementate di un paio di secondi alla settimana (sempre in sicurezza).
Tuttavia, assottigliare e prolungare una o entrambe le due fasi della respirazione, senza arresto del respiro, può apportare simili benefici a quelli della sospensione, per quanto in misura ridotta. Essendo priva di pericoli, questa tecnica va praticata per prima. Tutte queste modificazioni e applicazioni della respirazione possono considerarsi dei pranayama.
Il principio chiave del pranayama consistendo nel prolungamento e conseguente assottigliamento delle fasi respiratorie, in base al presente sutra una prolungata e sottile espirazione o una prolungata e sottile inspirazione, oppure una deliberata sospensione del respiro, possono considerarsi dei pranayama.
Sebbene Patanjali nel presente sutra faccia menzione di tre tipi di pranayama comportanti la deliberata modifica di una sola fase respiratoria, e nel sutra successivo II:51 ne citi una quarta varietà, ove l’arresto respiratorio avviene spontaneamente, un sadhaka può vantaggiosamente adottare una tecnica in cui tutte e tre le fasi respiratorie siano controllate e rese sottili e prolungate.
Dopo una lunga pratica (anche di anni) con questi tipi di pranayama, il sadhaka può passare all’arresto spontaneo del respiro in una qualsiasi delle fasi. Ciò indica che il suo sistema respiratorio è stato adeguatamente condizionato ed è il segno della vera padronanza del pranayama.
sutra 52 Trad. lett.: Da questo (pranayama) si dissolve il velo che copre (internamente) l’illuminazione.
La caratteristica fisiologica principali del pranayama, cioè il rallentamento della respirazione che condiziona il centro nervoso regolatore ad una concentrazione di CO2 più alta del normale, la tranquillizzazione della mente è più marcata e ottenuta più rapidamente.
Il citta diventa pronto a volgere la sua attività in qualunque direzione si desideri. In altre parole, il citta può penetrare molto profondamente e completamente nella realtà di qualsiasi oggetto, il che è come dire che può accedere ai processi meditativi di dharana, dhyanae samadhi applicati a quel determinato oggetto.
sutra 53 Trad. lett.: e la abilitazione della mente (ad entrare) in dharana (è anche un effetto dal pranayama).
L’altro effetto del pranayama, indicato dal presente sutra, precisa che il pranayama è un prerequisito essenziale per entrare in dharana, cioè nel primo stadio del processo meditativo. La tranquillizzazione di citta (v. sopra), producendo in esso una capacità penetrativa della realtà che si cela dietro l’oggetto scelto per la meditazione, è la ‘’yogyata’’ (abilitazione, eleggibilità) ad entrare nel primo stadio della meditazione. Patanjali cita dharana al plurale (su) perché in tale stadio il citta percepisce diversi pratyaya (esperienze) dello stesso e unico oggetto (per una spiegazione completa v. III:1-4).
Pratyahara
Il significato principale di pratyahara nell’ astanga yoga è ‘’ritiro dei sensi all’interno verso la loro origine, ossia verso la mente e alla fine verso il citta’’.
In certo modo, essi assumono la forma di citta, si fondono in citta e quindi non hanno esistenza o attività separata e all’infuori di citta. Dato che le abituali aperture sul mondo esterno non funzionano più, la mente e il citta non ricevono alcun messaggio o comunicazione da qualsiasi realtà esterna.
Evidentemente, questo è un prerequisito essenziale per gli sviluppi ulteriori del processo meditativo. Se il citta continuasse a ricevere informazioni e segnali dall’esterno attraverso i sensi, non vi sarebbe citta prasadana (stato piacevole e pacificato) e il citta non potrebbe immergersi nelle proprie profondità, che è quanto accade durante dharana-dhyana e samadhi Patanjali non chiarisce come realizzare il pratyahara.
La ragione è che questo avviene spontaneamente come risultato di una lunga e sincera pratica dei primi quattro anga, specialmente di pranayama (ma fornisce alcune tecniche che possono essere utili) Tecniche raccomandate da Patanjali per facilitare l’assorbimento (stabilizzare Manas)(I-35-39): Si basano sulla creazione di Visaya (oggetti mentali): La sensazione creata sarà che la data cosa sia stata prodotta internamente, dalla mente stessa, che ne viene ‘riempita’. I Visaya sono conosciuti e goduti dalla mente attraverso la mediazione di uno o più dei cinque sensi della percezione. Una tecnica ad esempio: La mente deve produrre un oggetto-soggetto il cui effetto sia percepito prevalentemente attraverso uno qualsiasi dei cinque sensi.
Quindi, la mente deve creare o immaginare, come se la cosa esistente internamente, potesse essere vista, toccata, ecc., mediante una tenace e costante ripetizione di tale contemplazione.
Dharana
Per realizzare questa tecnica il sadhaka deve sedere quieto e concentrarsi sulla sensazione desiderata per una mezz’ora al giorno finché l’esperienza non si materializzi.
L’esperienza prodotta in tal modo si rivela particolarmente strana e piacevole, e può giungere ad ossessionare la persona, come in una dipendenza. Pertanto, La tecnica va praticata soltanto allo scopo di abituare la mente a rimanere stabile a lungo su un determinato oggetto. Una volta raggiunto il risultato e l’abitudine a mantenere stabile la mente per il tempo desiderato, essa deve venir dismessa.
La tecnica raccomandata nel sutra consiste nel produrre artificialmente la visione di una luce o di una fiamma luminosa, mediante la ripetizione costante alla mente che essa può effettivamente vederla. Tuttavia, come spiegato in I:35, queste sensazioni sono così gradevoli alla mente che essa tende a rimanervi attaccata, così imparando a rimanere stabile. Anche questa tecnica deve essere abbandonata una volta che la mente abbia imparato a mantenersi nello stato di citta-prasadana.
Un’altra tecnica: Primo modo: la mente contempla e medita sulla vita di un santo noto per essere libero da attaccamento e passioni. Come risultato, la mente diventa sempre più distaccata e ciò conduce naturalmente alla sua stabilizzazione.
Secondo modo: costante riflessione sulle sofferenze che inevitabilmente gli attaccamenti e le passioni producono, la mente così rieducata finisce per obbedire e modellarsi secondo queste istruzioni.
Ultima tecnica Attivare Sakshi – Il testimone interiore (parte di citta che rimane consapevole durante il sonno – ricorda la «sveglia interiore» che ogni tanto abbiamo quando c’è un impegno importante) Abituare Sakshi a produrre un sogno ad un’ora prestabilita della notte e a sognare ciò che si desidera Le impressioni lasciate da questi SOGNI LUCIDI aiutano l’assorbimento Secondo modo (più difficile): abituare Sakshi a rimanere desto nel sonno profondo e non generare sogni.
Dhyana
Dhyana è così descritto: ‘’una ininterrotta e continuamente estesa consapevolezza di un’esperienza molto precisa e uniforme dell’oggetto’’ non deve esserci la benchè minima variazione in questa cognizione o consapevolezza dell’oggetto Durante lo stato di dhyananon esiste attività pensante circa l’oggetto prescelto, dato che qualunque pensiero o ideazione provocherebbe un’alterazione dell’esperienza, il che significherebbe l’interruzione del processo di dhyana e una regressione allo stato precedente di dharana
Samapatti
Il samapatti, quindi, è un processo nel quale avviene una totale identificazione del citta con l’oggetto della comprensione. Un processo è un’attività implicante mutamenti continui, e in tale processo continuo, possono susseguirsi diversi cambiamenti di condizioni o di stadi. Per comodità di studio e di comprensione del processo del samapatti, possiamo distinguere e designare, arbitrariamente, un certo numero di stadi.
Così, il processo del samapatti viene suddiviso in quattro stadi, due principali, ognuno dei quali è a sua volta duplice. Abbiamo, pertanto, due samapatti, associati rispettivamente a vitarka e vicara, i quali si suddividono in suddivisioni e cioè in savitarka-nirvitarka e savicara-nirvicara.
Alla fine dell’intero processo, viene raggiunto uno stadio che rimane stabile e invariato per un certo tempo, e questo stadio è in certo senso il termine del processo di samapatti.
Questo stadio stabile è detto samadhi, e come indicato in I:46, questo samadhi particolare, termine ultimo dei quattro samapatti, è detto Sabija (‘con seme’). Pertanto possiamo dire che il risultato dei processi di samapatti è il samadhi.
Ecco allora che dal precedente schema diventa chiaro che le samskara, ossia le impressioni del passato che giacciono nel karmasaya, il deposito karmico, generano i vitarka, questi pensieri indesiderabili che compaiono nelle prime fasi di assorbimento.
Mano a mano che si svuota il karmasaya e che la forza, il numero e la frequenza dei vitarka si affievolisce si passa nella fase nirvitarka samapatti.
E’ in questo stadio che cominciano a giungere pensieri positivi ma che sono comunque distrazioni dell’assorbimento meditativo, ossia i Vicara. Mano a mano che anche i Vicara si esauriscono e la mente riesce a stare concentrata e fissa nel suo oggetto di meditazione ecco che ci si avvicina al Samadhi.
Vitarka e Vicara
Mano a mano quindi che arrivano i Vitarka, sotto forma di parole o immagini il processo mentale per esaurire il bagaglio karmico diverrebbe secondo Biagi quindi una sperimentazione dello stesso oggetto di meditazione via via a livelli progressivi e sempre più profondi.
Come lo stesso Re Bhoja spiega parlando delle differenza tra parola, significato e comprensione del significato relativo ad una parola, la stessa meditazione, fosse ad esempio sulla parola mucca, porterebbe alla scissione tra parola, significato e sua rappresentazione, il che appare logico e banale per un certo verso come ragionamento il distinguere l’animale stesso dalla parola usata per indicarlo e dalla nostra rappresentazione mentale dello stesso, ma ad un attenta analisi scopriamo che non lo è affatto.
La nostra osservazione del mondo che ci circonda avviene tramite le parole. Mi spiego: per un bambino che non conosce la parola “canarino” l’animale che si posa volando davanti a lui è una magia con le ali. Lo osserva curioso, userebbe tutti i suoi sensi, potesse, per esperire l’oggetto della sua curiosità. Lo toccherebbe, lo annuserebbe, lo metterebbe in bocca…
Tuttavia dopo che l’adulto gli dice il “nome” della magia con le ali, ecco che il bimbo può perdere l’interesse. La magia con le ali diventa “solo” un canarino. Tutti gli oggetti e le cose che ci circondano, se ragioniamo in questo modo, sono visti e vissuti soprattutto a livello mentale, attraverso nomi e rappresentazioni mentali degli stessi mentre degli oggetti reali sappiamo ben poco perché abbiamo smesso di esperirli una volta scoperta la parola che li designa.
Se portiamo questo ragionamento su oggetti impalpabili e sensibili ecco che allora si apre un mondo. Se già parlando di oggetti tangibili la confusione è tanta, figurarsi quando si parla di stati mentali di immersione meditativa. Il rischio di viverli solo attraverso quanto è stato letto sull’argomento e tramite la rappresentazione mentale che ci siamo fatti dell’argomento è alta.
Questo è di fondamentale importanza per distinguere ciò che sono immagini mentali, ossia creazioni della mente, ed oggetti quindi di meditazione.
Se seguiamo l’indagine proposta dell’Advaita Vedanta e portiamo come oggetto di meditazione l’osservatore stesso, ossia la consapevolezza stessa, ecco allora che diventa necessario scindere l’immagine che la mente stessa ha dell’osservatore, o quello che crede sia, e l’essenza stessa dell’osservatore e capire, esperire, cosa questo significhi.
Ad ogni modo, ciò che Biagi estrapola dai sutra sarebbe un percorso introspettivo in differenti livelli dove alle sfere Vitarka e Vicara ne seguono altre, Ananda, Asmita, Anya per poi arrivare al Kaivalya.
Metafora della meditazione
Addentrandoci in questa indagine ecco possiamo comprendere come la meditazione sia spesso paragonata ad uno svuotarsi. Immaginiamo di entrare nel nostro soggiorno. Ciò che vediamo, che spicca subito alla nostra vista, è il disordine se presente, sono gli oggetti stessi, la penna sulla scrivania, la felpa dimenticata sul divano, il cuscino caduto per terra. Togliendo questi piccoli oggetti cominciamo a notare il divano stesso.
La libreria diventa visibile in quanto mobile quando l’abbiamo svuotata da tutti i suoi libri. Prima guardando la libreria né vediamo solo il contenuto. Questa ricerca prosegue, portando fuori dalla stanza anche gli stessi mobili. Ecco allora che ci accorgiamo della dimensione della stanza, delle mura, del pavimento. Togliendo anche la stanza rimane lo spazio ivi contenuto, ed è quello spazio che permette a tutti i contenuti precedenti di poter esistere e di occuparlo.
Ananda
Il processo meditativo non è molto differente. Svuotando la sostanza mentale ad un certo punto arriva uno stato di intensa beatitudine, in quanto la mente meccanica si è interrotta. La pace di avere una mente ferma è simile a quel momento in cui si rimane assorti guardando un tramonto, o un bel panorama. C’è un attimo, facendo attenzione, prima che la mente cominci il suo dialogo interno giudicando quanto stiamo vivendo con frasi del tipo “ma che bel tramonto”, “mi ricorda di quella volta”….c’è un attimo in cui la mente è ferma e noi siamo nel tramonto. In quell’istante, che a volte si prolunga per dei meravigliosi secondi o forse più, in cui la mente tace e si assapora la semplicità di stare nell’osservazione del tramonto, senza dargli un nome, un’etichetta, un giudizio, o associargli qualche altro pensiero o ricordo. Lo stato di ananda, della mente che si ferma, è descritto come beatitudine, letizia, grazia…
Asmita
Continuando l’indagine ad un certo punto non rimane altro che l’ahamkara, il senso dell’io, purificato da tutti i possibili attributi. Non è più un “io sono un uomo”, “io sono un impiegato”, “io sono un padre di famiglia”, “io sono quello che sta guardando questo tramonto” ma semplicemente un “io sono”. Il salto sostanziale è l’abbandono ulteriore, per entrare nella sfera Anya, anche di questo senso di “io sono”. Pier Giorgio Caselli della ScuolanonScuola lo descrive come il realizzare che noi non siamo persone, ma qualcosa di immensamente oltre.
Anya
Mooji dice:”Noi esseri umani non dobbiamo dirigere la coscienza, perché non ne siamo né i controllori né i creatori; siamo l’espressione e l’incarnazione vivente della coscienza che appare sotto forma di persone indipendenti e compiono azioni e pensano pensieri. L’abbandono del senso di controllo è segno di maggiore intuito e spontaneità, e della pura conoscenza di Sè che sta sbocciando dentro di voi.”
L’abbandono del senso di controllo è preambolo al vero lasciarsi andare, ossia nella morte del Sé di cui lo stesso Nisargadatta racconta quando afferma tranquillamente di essere morto. “…La gente teme di morire perché non sa cos’è la morte. Il sapiente è già morto e ha visto che non c’era d’avere paura. Non appena conosci il tuo essere, non temi più. La morte dà libertà e potere. Per essere nel mondo, devi morire al mondo. Allora l’universo è tuo, diventa il tuo corpo, un espressione ed uno strumento.
I.: Cosa muore alla morte? R.: L’idea “io sono il corpo”. Il testimone non muore.”
Ramana Maharshi descrive questo passaggio così :”La morte del nostro corpo non è una morte reale, perché questo corpo è una pura immaginazione, così quando la nostra mente cessa di immaginarsi come questo corpo, si immaginerà come qualche altro corpo, come fa nel sogno. Poiché la causa dei nostri ripetuti sogni di nascita e morte è solo la nostra mente, la sola morte reale che possiamo sperimentare è la morte della nostra mente. La nostra mente è sorta o è nata perché abbiamo dimenticato cosa siamo realmente. Se avessimo conosciuto noi stessi come siamo realmente, non avremmo potuto confonderci con ciò che non siamo. Proprio come un sogno può sorgere dentro di noi solo quando stiamo dormendo — cioè, quando abbiamo dimenticato il nostro attuale sé di veglia — così la nostra illusione di essere questa mente può sorgere solo nel fondamentale sonno di dimenticanza del nostro vero sé non-duale. Quindi poiché questa auto-dimenticanza o autoignoranza è l’oscurità che ha dato origine alla nostra illusione di essere questa mente, quando è distrutta dalla chiara luce della vera auto-conoscenza, la nostra mente è distrutta con essa.”
Questi grandissimi Maestri hanno trasceso la mente duale e sono andati nell’Oltre, in quella zona che gli Yoga Sutra definiscono Anya.
Si è consapevoli anche che parlare di questi stati e ipotizzare quale livello realizzativo abbiano raggiunto questi immensi personaggi sia come l’intento di un geranio di capire il complicatissimo teorema di Fermat. Sicuramente la paura della morte è uno dei fattori determinanti nella difficoltà di lasciarsi andare ed affrontare la meditazione accogliendo quel che accade, lasciando andare anche l’idea che abbiamo su noi stessi e cosa crediamo di essere e di cosa crediamo esattamente sia il mondo stesso. Il primo passo è sicuramente l’accettare di non poter capire questo stato con la mente e affrontare il viaggio con fiducia ma anche con l’ardire di lasciarsi dietro tutti i punti fissi e le certezze più fondamentali della nostra vita.
Esprimere questi concetti con delle parole risulta davvero difficile, tuttavia se ci fermiamo un attimo nella lettura e riflettiamo davvero su cosa possa voler dire, in profondità, cosa possa significare realmente l’abbandonare l’idea di essere una persona, possiamo intuire che crolla assieme a quest’idea tutto il resto, persino l’idea del mondo e di come lo conosciamo perché sarebbe un’azione fatta tramite la mente e la sensazione di essere una persona. Cosa rimane se cade anche questa idea? Cosa resta?
Samadhi
Lo stato di Samadhi caratteristico della sfera Anya è descritto dagli Yoga Sutra e commentato da Biagi nel modo che segue. Esistono 3 tipologie di Samadhi:
Sabija Samadhi
Nirbiya Samadhi
Dharmamegha Samadhi
Sabija Samadhi è dunque con seme, lo stato di assorbimento dove ancora esiste un oggetto di meditazione sebbene il senso dell'”io” sia scomparso. Nello stato di Nirbiya invece anche l’oggetto (il seme) della meditazione viene abbandonato. Lo stato di Dharmamegha Samadhi viene sperimentato una volta soltanto ed è prima del Kaivalya o liberazione.
Riassunto
Prerequisiti per il cammino (attraverso il Kriya – Tapas, Svadhyaya – Isvara Pranidhana – si attenuano i vizi capitali (5 klesa), Yama e i rimanenti Nyama completano la fase preparatoria al cammino)
Capacità di controllare i fattori fisiologici ed emozionali (Maestria in asana)
Yogyata: Stabilizzazione della mente, che diventa più tranquilla e aumenta la capacità di penetrare in profondità (con la maestria in Pranayama)
Citta prasadhana (stato raggiunto grazie a Pratyahara, nulla di esterno dai sensi penetra nello stato interiorizzato)
Dharana (nei suoi livelli di Savitarka, Nirvitarka, Savicara e con le sue 4 tecniche proposte per facilitare l’assorbimento meditativo)
Dhyana (3 livelli di Nirvicara, nello stato finale i Vicara sono affievoliti al punto da scomparire del tutto)
Samadhi (è la fine dei processi di Samapatti-unione con l’oggetto continua e prodonda. Totale identificazione del Citta con l’oggetto – Sabija Samadhi- successivamente quando si «perde» il seme diventa Nirbiya Samadhi e poi Dharmamegha Samadhi. Dopo c’è il Kaivalya.
Intento: dare un ordine alle speculazioni delle Upanisad tentando di trasmetterle all’interno della civiltà Indiana
Classifica tutti i principi, o elementi costitutivi, della realtà micro e macro cosmica e lo fa cercando un ordine evolutivo in cui la realtà fenomenica si dispiega, grado per grado, differenziandosi
Ignoranza e Conoscenza
Tutti i vari sistemi Darsana partono dall’assunto che l’esistenza terrena è permeata dal dolore e che l’infelicità le fa da sfondo. Liberarsi da questa infelicità diventa quindi obiettivo nobile e fondamentale, e il tentare di perseguirlo è il fine assoluto dell’anima, ciò che rendere la vita degna di essere vissuta. Ricordando che in India da sempre si sostiene che le anime trasmigrino di corpo in corpo possiamo anticipare già dove questo ragionamento conduce: se questo mondo, così radicato nella sofferenza, non avesse un aldilà non ci sarebbe liberazione in eterno. Non accettando questa seconda tesi possiamo dire che deve esistere un mondo che i nostri sensi non afferrano e nel quale risiede la chiave per la liberazione dal dolore. Il dualismo tra esistenza empirica ed esistenza assoluta che nasce da questo ragionamento si risolve nel constatare che noi non possiamo che appartenere all’assoluto. E’ poiché ignoriamo la vera natura del Sè, ecco allora la nostra identificazione con l’intelletto, con i sensi, col corpo, con la personalità empirica. Ciò che accade in seguito a questa ignoranza è molto pragmatico:
Durante la vita si esperisce fasi di piacere e di dolore
Nasce il desiderio per il piacere e l’avversione al dolore
Si tende ad agire in base a questo e le azioni che ne conseguono, a seconda di come sono, generano merito o demerito
Agendo si generano delle impressioni nella coscienza, possiamo chiamarle Karma, che determinano il ciclo delle vite (Samsara) che la nostra anima dovrà esperire.
In altre parole:
Qual è la causa della vecchiaia e della morte e di tutte le altre miserie dell’esistenza?
La nascita. E la nascita è una conseguenza dell’esistenza metafisica dell’individuo anteriormente alla nascita (l’essere che si reincarna).
L’esistenza metafisica è conseguenza della volontà metafisica di esistere.
La volontà metafisica di esistere è conseguenza del desiderio.
Il desiderio è conseguenza della sensazione (piacevole o spiacevole).
La sensazione nasce dal contatto fra i sensi e i loro oggetti.
I sensi e i loro oggetti sono conseguenza dell’individualità che pone sé stessa come soggetto
Questa individualità è conseguenza dell’intelligenza perché solo se c’è pensiero può l’individuo pensare e porre sé stesso come soggetto.
Occorre pertanto andare oltre l’intelligenza per trovare la soluzione.
Cosa c’è oltre? Il sè.
La soluzione all’ignoranza per il sistema Sankhya è la Conoscenza. Conoscenza che va dunque intesa nella sua accezione più profonda: cosa è il Sé? Cosa non è?
Le strade per ottenere la Felicità
Le strade che l’uomo ha tentato invano per liberarsi dal dolore sono davanti ai nostri occhi. Ricondurre la felicità all’acquisizione di beni materiali aumenta il desiderio stesso di possesso e non appaga del tutto, essendo i beni materiali non assoluti e soggetti alle leggi del tempo. Se la felicità a cui si mira è assoluta deve per forza anche essere stabile e duratura, ed una volta acquisita non può essere persa. Definita così anche la felicità derivante dall’appagamento dei nostri desideri di beni materiali o immateriali, siano essi anche di ordine emotivo o spirituale, non può essere assoluta ed è evidente in quanto i beni materiali ed emotivi sono transitori. Per i beni spirituali il discorso è invece diverso e merita più attenzione. Distinguiamo innanzitutto la felicità dal godimento perché sono due cose diverse. Il sesso e le emozioni che ne derivano evidentemente giacciono nella sfera del godimento e non possono portare alla felicità stabile e duratura in quanto il godimento dei sensi anch’esso transitorio. Non porta alla felicità dall’altro lato nemmeno la religione e vale la pena analizzarne le motivazioni.(ricordando che è Kapila che scriveva queste affermazioni e si riferiva ai riti religiosi dell’epoca Vedica)
Esistendo sempre nel cammino spirituale una mèta più alta da raggiungere, un grado di perfettibilità coscienziale maggiore, il senso di incompletezza e di imperfezione che ne deriverebbe sarebbe sempre presente.
Si aggiunge a questo il ragionamento che il Sankhya fa sulle pratiche religiose dell’epoca che comportavano anche sacrifici di animali, pratica secondo il Sankhya da considerarsi impura.
Inoltre la religione attraverso merito e demerito e cicli di rinascite in forme di esistenza differenti includerebbe la precarietà stessa di qualsivoglia stato di incarnazione e di perfezione raggiunto essendo sempre possibile infatti perdere tale forma, per quanto vicina a quella degli Dei, a seconda delle azioni commesse retrocedendo nelle varie categorie di rinascite.
La religione inoltre come via per la felicità viene vista dal Sankhya come ingiusta per l’ineguaglianza della distribuzione dei frutti derivanti dai sacrifici osservati.
Se nemmeno la religione quindi aiuta nella liberazione dal dolore esistenziale come possiamo liberarci? Come realizzare la Conoscenza sconfiggendo l’Ignoranza? Come raggiungere la piena conoscenza del Sè?
La Conoscenza distintiva
La Conoscenza di cui parla il sistema Sankhya è distintiva, perché essa ci indica come distinguere il Sè ed i 24 principi a cui si può ricondurre la realtà empirica (spiegati meglio in seguito). Questa conoscenza non è Sruti (rivelazione divina) ma bensì frutto della ragione umana che tramite percezione, ragionamento e testimonianza si sottrae dal giogo della tradizione religiosa quale unica detentrice del cammino di liberazione. Il Garbe (1898) da questo passaggio ne inferisce che, se quanto detto basta per considerare la filosofia Sankhya in antitesi con i Veda, allora è presumibile che i contenuti esposti nel Darsana abbiano origini non Vediche. Questa deduzione, sebbene ripresa da alcuni commentatori e negata da altri, sarebbe perlomeno interessante perché concorderebbe con le origini non Vediche, e quindi non Ariane, dello Yoga e derivanti invece da antiche culture tantriche che si rifanno invece agli antichi Dravidi.
I metodi dell’essere umano per conoscere
Il Sankhya ha i merito di analizzare in modo dettagliato quindi come l’essere umano si approccia alla conoscenza, quali siano i suoi metodi per conoscere qualcosa. La percezione di un evento, per quale che esso sia, sebbene strumento diretto non si sottrae al dilemma dell’errore. Le cause che possono impedire o turbare la percezione sono quindi:
L’allontanamento (un uccello che si allontana diventa infine impercepibile)
La troppa vicinanza (il collirio sull’occhio non è percepito dalla vista stessa)
I difetti degli organi (es: il suono per i sordi)
L’inattenzione
L’estrema finezza (le particelle di vapore)
La frapposizione di un altro oggetto (non vedi dietro un muro)
La predominanza di un’impressione sull’altra (di giorno non vedi le stelle)
La mescolanza con oggetti simili (un granello di sabbia di perde in una spiaggia)
Il ragionamento o inferenza invece può avvenire in tre modi diversi (e riprende nel Sankhya quanto già affermato dal Nyaya)
Dall’effetto alla causa: Dalla presenza del fumo possiamo supporre che esiste il fuoco
Dalla causa all’effetto: dal sorgere delle nuvole possiamo inferire l’avvicinarsi della pioggia
Dall’analogo all’analogo: vedendo un albero in fiore si inferisce che anche altri alberi della stessa specie siano fioriti
La testimonianza o il legittimo insegnamento è da considerarsi un mezzo per arrivare alla conoscenza se derivante da una fonte autorevole (e comprende la rivelazione Vedica e quel complesso di tradizioni che sui Veda si fondano, e cioè le sentenze della Tradizione, le leggende, i puranas. I Bhuddisti e i Jainisti sono esclusi dalle fonti autorevoli perché non avevano una buona reputazione – Kaumudi 36). La testimonianza è comunque la meno importante nel razionalista Sankhya dei tre mezzi conoscitivi.
Cosmogonia
Dalla sistematizzazione dei metodi per pervenire alla conoscenza il Sankhya cerca poi di rispondere alla seguente domanda: “Il mondo materiale esiste indipendentemente dal nostro intelletto o non è che una rappresentazione illusoria dell’io?” Per rispondere a questa domanda occorre fare qualche passo indietro e cominciare osservando la realtà. L’effetto coincide con la sua causa? Il vaso di argilla è sempre argilla che si manifesta in modo diverso. Prima esisteva l’argilla, poi il vaso e infine la terra al quale il vaso ritorna. Le manifestazioni passato, presente e futuro sono diverse rappresentazioni della stessa cosa. Se ogni manifestazione è in realtà la stessa sostanza che muta forma, ciò che è al di sopra degli esseri particolari non è la forma ma la sostanza stessa, il substrato indistinto nel quale sono contenute in uno stato di omogeneità. Tutte queste «sostanze» presuppongono ancora qualcosa da cui esse derivano e via dicendo a risalire fino al principio ultimo delle cose. «…perché la produzione del vaso non è che l’isolarsi distinto dall’argilla indistinta…allo stesso modo la terra…presuppone come sua causa qualcosa di indistinto, che sono appunto gli elementi sottili, e questi a loro volta come distinti presuppongono un indistinto immediatamente superiore, che è la Personalità; e così via…» Possiamo così riassumere questa parte del Sankhya:
L’energia o la forza di tutto ciò che è distinto è sempre contenuta da ciò che indistinto differisce dalla cosa stessa. «La forza di una catena era già contenuta nel ferro che l’ha formata»
Tutto ciò che è spazialmente limitato procede sempre da una causa che è relativamente ad esso meno distinta e meno limitata. Quindi: la causa suprema è sommamente indistinta e ad un tempo illimitata.
Le cose hanno una natura in comune. In tutte le sostanze, in tutte le categorie, è possibile osservare delle caratteristiche in comune.
Prakriti, la causa suprema
Da questo si può concludere che esiste una causa suprema (Prakriti) e che questa deve avere le seguenti qualità:
Preesiste alla creazione
E’ l’indistinto supremo, l’indeterminatezza dalla quale si producono tutte le altre cose
E’ la causa materiale, il substrato di tutte le cose, la sostanza e la forza.
E’ universale ed eterna, illimitata.
La sua esistenza è indipendente da tutto il resto
E’ formata dai 3 guna in perfetto equilibro tra loro (non c’è punto dello spazio in cui non si trovino riuniti). Prakriti non è composta da tre qualità distinte ma da tre essenze omnipresenti «come il gange riunisce in se le tre correnti che scendono dal capo di rudra»
(3 guna = piacere – sattva, dolore – Rajas, indifferenza – Tamas). Prakriti allora non deve essere considerata come alcunché di esterno e di materiale, ma come l’indistinto psicologico primitivo e supremo nel cui seno giace allo stato latente la totalità della nostra esistenza soggettiva empirica, come quel principio misterioso ed oscuro che esiste da tutta l’eternità accanto all’anima, come essa increato ed onnipresente, ma a differenza di essa attivo e non spirituale ossia incapace di elevarsi per sé alla vita cosciente, e che per effetto dell’ignoranza diventa, alla luce dell’anima, l’essere individuale empirico.
I tre Guna della filosofia Sankhya
Il Sattva è luminoso e lieve, esso è il substrato di tutto ciò che è buono, bello, lieto, perfetto; alleggerisce ed illumina le cose ed è causa del loro perfetto funzionamento; nei sensi e nella mente è ciò che rende possibile la conoscenza.
Il rajas (dolore, passione) è l’elemento attivo, eccitante; esso è il substrato di tutto ciò che è azione, mobilità, dolore; sta come un medio fra il sattva ed il tamas ed eccita gli altri due costituenti, per sé inerti, all’azione.
Il tamas infine è l’elemento più grossolano ed ottuso; esso è il substrato di tutto ciò che è immobile, tenebroso, sonnolento, torpido, abbietto; ottenebra le menti, ritarda il moto; induce dappertutto insensibilità ed inerzia.
E’ importante, parlando dei guna, ricordare alcuni concetti:
I tre costituenti hanno la proprietà di dominarsi mutuamente.
Possono completarsi mutuamente
Possono sostituirsi l’uno all’altro
Permangono sempre fra loro inseparabilmente connessi
Dalla rottura dell’equilibrio perfetto che hanno in Prakriti prende luogo la creazione
Le 24 categorie del Sankhya
Procedendo quindi a ritroso dalla realtà fenomenica alle sostanze di cui è composta e categorizzando le suddette sostanze facendole risalire a ciò che hanno in comune, e procedendo così per molti cicli, si arriva a descrivere, ricondurre e sintetizzare la realtà a 24 principali categorie. Dalla causa prima, Prakriti ha origine l’intelligenza o Bhuddi, ossia la capacità di formulare un pensiero perché solo in virtù del pensiero può un essere pensare sè stesso e quindi sentirsi esistere come entità separata dagli altri, come personalità e quindi Ego (Ahamkara). E’ quindi tramite Manas, la mente, che l’individuo così in via di formazione decifra e riorganizza gli stimoli sensoriali che gli pervengono dall’esterno, arrivanti come Tanmatra, ossia a livello universale in qualità di suono, tocco, forma, gusto e olfatto. La percezione dei tanmatra avviene attraverso gli organi di conoscenza (Jnanendriya) e gli organi di azione (Karmendriya), ossia attraverso orecchie, pelle, occhi, lingua e naso per i primi cinque e attraverso la bocca, le braccia e le gambe, l’apparato escretore e riproduttore per i secondi cinque. Tutto ciò che gli perviene è opera-composto dei 5 Bhuta, o elementi grossolani, ossia terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Essendo così composto il sistema la risposta alla domanda precedente è quindi la seguente: l’Io crea i sensi ed i loro oggetti come colui che desidera un godimento crea gli strumenti con i quali produrlo. Tuttavia nel sistema sopra esposto manca ancora l’elemento cardine che risolve il dolore dell’esistenza. Se infatti l’essere umano è riconducibile interamente a Prakriti allora non vi sarebbe liberazione in eterno poiché mancherebbe quell’assoluto a cui sentiamo di appartenere nel nostro profondo che trascende la personalità e l’intelligenza stessa o la materia iniziale della quale queste sono composte.
Purusa
Chi è il Purusa? Il Purusa è lo Spirito, ciò che anima la materia, che la rende viva e che unendosi ad essa può fare un percorso fino a realizzare Sè stesso. Nel momento in cui il Purusa realizza chi è, ecco allora che si distacca nuovamente dalla materia. La definizione del Purusa avviene sovente per via negativa: si afferma ciò che il Purusa non è finché non rimane un qualcosa d’indefinibile e d’inconcepibile. E’ costituito per forza di cose da una qualità diversa di Prakriti e pertanto non è composto dai 3 guna, quindi esso è al di là di piacere, dolore e indifferenza. A maggior ragione non appartengono al Purusa le percezioni, i desideri, i fatti della vita interiore. La sua essenza non è materica per quanto sottile sia la sua forma, ma spiritualità pura, coscienza pura. Il conoscere non è in alcun modo una proprietà di Purusa né una sua qualità: il Purusa è il conoscere stesso ed è eterno, omnipresente e imperturbato. Ecco altre qualità del Purusa:
Lo spirito puro non agisce!
Esiste una pluralità delle «anime» (dei Purusa). Se non fossero tante che senso ha la Liberazione? Inoltre un gran numero di «anime» si sono liberate e sono tornate a darcene testimonianza.
Lo spirito è imperturbato. (altrimenti anche dopo la liberazione potrebbe essere nuovamente oppresso dal dolore)
E’ immutabile: perché se fosse mutabile la sua spiritualità andrebbe incontro a cambiamenti, offuscamenti, oscuramenti
E’ eterno in quanto se non ha principio non ha nemmeno una fine
E’ illimitato, perché se fosse spazialmente limitato consterebbe di parti e sarebbe quindi perituro
E’ eternamente libero: in quanto è straniero al dolore, alla gioia e a tutte le afflizioni.
E’ solitario (ogni cosa nella sua esistenza è come se non esistesse) e inattivo. Non vi è per lui né ragione né possibilità di agire.
E’ evidente che esso non è il SOGGETTO della schiavitù del dolore
«…nessuna cosa lo tocca, l’affetta realmente; esso è come una foglia di loto che non si bagna anche se è immersa nell’acqua…»
Allegoria del cieco e dello storpio
Secondo un’altra allegoria classica che evidentemente ha molto viaggiato, perché era pervenuta già in epoca medievale fino alle nostre contrade, uno storpio e un cieco erano in viaggio insieme quando, in una foresta, la carovana fu assalita violentemente dai briganti. Abbandonati dai compagni di viaggio, essi presero a vagare a caso da un luogo all’altro. E così, vagando ciascuno per proprio conto, finirono con l’incontrarsi. Poiché nutrivano fiducia l’uno nell’altro, stabilirono di unirsi, acciocché, così riuniti, potessero camminare e vedere. Il cieco sollevò lo zoppo sulle spalle e, secondo la strada che questi gli andava indicando, egli procedeva. Ora lo spirito (purusha), al pari dello storpio, destituito della potenza di azione, ha bensì la potenza della vista, mentre la natura (prakriti), al contrario, essendo in grado di agire, ma non potendo vedere, rassomiglia al cieco. Accade poi che, a quel modo che si verifica la separazione di questi due uomini allorché essi abbiano raggiunto il luogo desiderato, conseguendo così il proprio scopo, lo stesso interviene per la natura, la quale, indotta la liberazione nello spirito, cessa dall’agire. Lo spirito, a sua volta, consegue lo stato di isolamento: vale a dire che, compiuto il loro scopo, entrambi si separano. Come dal congiungersi dell’uomo e della donna nasce un figlio, così, dall’unione di natura e spirito nasce il creato. Così, secondo Kapila e la filosofia Sankhya, la creazione ha origine dalla congiunzione (samyoga) di purusha e prakriti e dalla successiva evoluzione innescata da tale unione, per cui la natura immanifesta (mulaprakriti) divorzia dal suo stato originario di omeostasi per evolversi in una serie di stati o principi (tattva), il primo dei quali è l’indifferenziata consapevolezza, buddhi che a sua volta genera il senso dell’ego (ahamkara, io faccio), che a sua volta dà origine a tutto il mondo manifesto. I tattva (tat significa “quello”) sono i 25 (24 di prakriti + purusa = 25) principi costituenti il tutto, ma che si riassumono in questi tre: lo spirito, l’immanifesto e il manifesto.
Allegoria della danzatrice e dello spettatore
Un’altra metafora usata nel Sankhya è quella della ballerina e dello spettatore. La Prakṛti è la danzatrice. Il Puruṣa lo spettatore. Lo spettatore osserva la ballerina, si lascia sedurre dalla sua danza, si fa coinvolgere sempre di più, dimenticando così di essere solo spettatore. Arriva a credere di essere lui stesso a danzare (a pensare, sentire, agire), si identifica erroneamente con una forma di esistenza particolare (fatta di corpo sottile – composto da buddhi, ahaṃkāra, manas, 5 facoltà di percezione, 5 facoltà di azione, 5 tanmātra – e corpo materiale). Quando avviene la liberazione, la Prakṛti smette di danzare, si ritira, e il Puruṣa può tornare al suo eterno isolamento.
L’individuo e il corpo sottile
Secondo il Sankhya l’individuo è formato da:
Il corpo materiale (costituito dagli elementi grossolani)
Il corpo sottile
Il Purusa
Il corpo sottile (o Lińga Śarīra) è un veicolo impalpabile, invisibile e sottilissimo e avviluppa il Purusa. E’ composto dagli elementi più sottili della Natura (o Prakriti), dall’intelletto (Bhuddi), dalla personalità (Ahamkara), dal Manas (mente) e dai dieci organi e dai cinque elementi sottili. Esso è intimamente connesso con il Purusa che accompagna in tutte le sue migrazioni di corpo in corpo. Attraversa i mondi delle esistenze invariato nella sua essenza. Il merito e il demerito delle azioni connesse si imprimono in lui e ne predeterminano fatalmente il futuro cammino. E’ secondo alcuni il «vero» corpo in quanto è esso la sede delle sensazioni. E’ il ricettacolo della gioia e del dolore che in esso solo realmente esistono ma che l’Anima (purusa) solo sente. E’ il Linga Sarira la sede della personalità empirica e per questo è’ il principio attivo di tutta la nostra esistenza. Infatti Manas elabora le impressioni degli organi, Ahamkara dà loro l’impronta della personalità e Bhuddi concepisce ciò che gli è trasmesso per presentarlo al Purusa e diventare un fatto cosciente.
Rapporto Purusa – Antahkarana
Nella letteratura Vedantica l’Antahkarana, o organo interno è composto da 4 parti:
Bhuddi, ciò che formula il pensiero, che prende decisioni
Ahamkara, senso dell’Io
Manas, parte razionale che collega con il mondo esterno attraverso i vari organi (generalmente connessa ai 5 Jnanendriya, 5 Karmendriya e 5 Tanmatra.
Citta, bagaglio di memorie, esperienze, impressioni passate
Il rapporto tra Purusa e Antahkarana viene così descritto «come nel caso del fiore Hibiscus e del cristallo non vi è una reale colorazione da parte del cristallo del colore rosso del fiore, così nel caso dell’Anima (Purusa) e dell’organo interno non vi è un vero influsso ma un’illusione» In altre parole: Il Purusa riceve le impressioni come uno schermo riceve le immagini del film che vi viene sopra proiettato.Qualcun altro descrive l’anima come uno specchio «in cui cadono le immagini delle cose: esse si riflettono in lei come gli alberi della riva in uno stagno.»
Samsara e Karma
Per il Sankhya, attraverso il Samsara, o il ciclo delle reincarnazioni, il Purusa+organo interno impara che il dolore è essenziale all’esistenza e che per sopprimere il dolore è necessario sopprimere la coscienza, separando il proprio Sé (Purusa) dalla Natura (Prakriti) cui il dolore appartiene. Per questo è fondamentale che il Purusa contempli la Natura in ogni sua parte, che fruisca di tutte le forme della Prakriti abbracciando in tutta la sua pienezza la profonda miseria dell’esistenza…in modo che prenda in orrore l’esistenza e se ne separi. Nel fare questo ogni azione da lui compiuta, ogni atto umano, lascia dietro di sé una traccia, un residuo, una disposizione, un’impressione materiale la quale in fondo altro non è che una lievissima, inapprezzabile modificazione nelle proporzioni dei tre guna costituenti l’intelletto Ciò crea il destino dei singoli individui determinando il ciclo delle rinascite in quanto influisce anche sulle nuove azioni e disposizioni. Le disposizioni generate dal Karma (azioni) compiute in una vita sono riassumibili in 8 categorie:
Conoscenza e ignoranza (conoscenza della distinzione tra Prakriti e Purusa)
Impassibilità e passione (impassibilità = negazione del desiderio: osservando si vede l’impermanenza degli oggetti dell’attaccamento e naturalmente si smette di dargli importanza)
Virtù e vizio (Virtù = opere Pie, sacrifici, eleva l’individuo alla beatitudine celeste; vizio il suo opposto)
Potenza e impotenza (Potenza è la modificazione dell’intelletto che è causata dalla contemplazione estatica – grazie a questo si perviene all’acquisto delle otto facoltà soprannaturali, ossia dell’onnipotenza della propria volontà)
I cicli delle rinascite
A seconda del Karma generato durante la vita è possibile incarnarsi nuovamente in un essere umano oppure in mondi superiori o inferiori. Abbiamo 8 mondi superiori in cui prevale il Sattva, di cui
7 mondi divini
1 mondo dei demoni
Poi abbiamo il mondo degli umani in cui prevale Rajas. Infine 5 mondi inferiori in cui prevale Tamas, ossia
animali domestici
animali selvaggi
uccelli
rettili
piante
Ed è interessante notare che secondo la Sankhya Karika quindi anche le piante hanno al loro interno un linga (Purusa + organo interno).
Effetti delle disposizioni
Gli effetti delle disposizioni per il Sankhya sono riassumibili in altre 4 categorie.
Errore
Impotenza
Quiete
Perfezione
L’errore si suddivide a sua volta in:
Oscurità: identificare il Purusa con Prakriti
Illusione: egoismo diretto all’acquisto delle 8 facoltà sovrannaturali e credere che esse siano eterne, inerenti quindi al Sè
Grande Illusione: amore smodato per gli oggetti dei sensi (sensi terreni o celesti)
Tenebre: comprende le condizioni mentali d’agitazione, impazienza, odio che derivano dalla affannosa ricerca dei piaceri dei sensi
Fitte tenebre: folle timore di perdere il godimento dei dieci piaceri dei sensi
L’impotenza si suddivide a sua volta in 28 sottospecie e sono tutte imperfezioni degli undici organi (Manas + Jnanendryia e Karmaendryia, oppure delle affezioni dell’intelletto) La Quiete comprende l’attività di coloro che non hanno ancora potuto elevarsi alla perfezione e si sono arrestati in una specie di indifferenza apatica. L’impassibilità non porta alla liberazione. Avviene però perché ci si rende conto del dolore:
Inerente all’acquisizione degli oggetti desiderati
Risultante dalla affannosa conservazione dei beni acquistati
Risultante dal carattere impermanente dei beni ottenuti
Prodotto dall’insaziabilità dei desideri, che aumentano di numero, anziché diminuire, ogni volta che vengono soddisfatti
Non è possibile alcun nostro godimento senza che ne risulti del dolore per altri esseri viventi
Quiete che è conseguenza anche di stati mentali non appropriati:
Smettere di meditare e rimanere nell’ozio perché si crede che basti aspettare che sia Prakriti ad effettuare la distinzione (dal Purusa).
Smettere la ricerca filosofica perché si pensa che bastano le pratiche ascetiche e quindi affidarsi solo alla pratiche ascetiche.
Smettere la ricerca filosofica perché si pensa che sia il tempo a governare tutto, che nel tempo arriverà anche la liberazione e quindi affidarsi al tempo.
Smettere la ricerca filosofica perché si pensa che la liberazione avviene per qualche atto fortuito, serie di coincidenze casuali ed affidarsi quindi alla fortuna.
La perfezione comprende l’attività di colori i quali sono prossimi alla liberazione / o arrivati già alla liberazione. A seconda del commentatore della Karika si suppongono significati diversi: Secondo Gaudapada sono le azioni di chi giunge alla liberazione:
solo meditando
ascoltando la dottrina
Studiandola sui libri sacri
vivendo la natura del dolore e realizzandola
Confrontandosi con amici
Per grazia ricevuta da un santo personaggio
Secondo KAUMUDI la perfezione si raggruppa in due specie:
specie proprie a coloro che hanno allontanato il dolore e quindi si sono liberati
specie proprie a coloro che, pur essendo pervenuti alla conoscenza, non hanno ancora trasformato la conoscenza da esteriore (e quindi inefficace) a interiore (immediata distinzione).
Esse sono:
Studio (raccogliere dal Maestro la dottrina)
Insegnamento (è la conoscenza del senso delle parole, effetto prodotto dallo studio)
Meditazione (prova del contenuto dello studio della dottrina secondo un metodo logico)
Conversazione con amici (è la conferma, parlando della dottrina con Maestri e discepoli, che quanto capito è corretto)
Purificazione dell’intelletto (rimuovere dal nostro intelletto ogni traccia di errore o di dubbio)
E queste cinque conducono alle prime tre.
La liberazione
La prima domanda che il Sankhya si pone quando si parla di liberazione è: chi si libera? Il Purusa in sé non è soggetto al dolore. Per il Purusa non c’è mai stata né schiavitù né liberazione quindi non è lui a liberarsi. Ciò che soffre è l’organo interno (Bhuddi + Ahamkara + Manas).
E’ quindi la Prakriti che è in rapporto con il Purusa che in realtà è schiava ed è liberata. Infatti il Purusa è onnipresente. Come potrebbe migrare di corpo in corpo o di vita in vita?
«Come lo spazio che è incluso in un vaso (secondo l’opinione comune si muove) quando il vaso è trasportato da un luogo all’altro, laddove (in realtà solo) il vaso è portato e non lo spazio, così è dell’Anima (Purusa) che è paragonabile allo spazio infinito.» (Brahmab. Up. 13 in S. pr. Bh. 361)
Quindi la liberazione è solo illusione?
«Essa non è che il dileguarsi dell’impedimento. Il dileguarsi d’un’oscura nube che ci tolga i raggi del sole nulla aggiunge allo splendore del medesimo che rimane, prima come dopo, inalterato. Ma nondimeno esso è, anche relativamente al sole, un fatto reale; il quale per noi che siamo sulla terra importa il reale ritorno della luce e del calore solare.»
Per l’individuo empirico non è perciò un fatto meno reale poiché in virtù del quale cessa la dolorosa serie delle esistenze empiriche e comincia la sola esistenza vera, supremamente reale: l’esistenza assoluta.
Occorre che vi sia distinzione tra cosa è Anima (Purusa) e cosa è Natura (Prakriti). La liberazione può essere quindi definita come la cessazione della nostra personalità empirica in quanto sussiste in ognuno l’illusione che questa sia la nostra anima (Purusa) e da qui la fonte del dolore.
Come sopprimere questa illusione? Con la conoscenza distintiva.
Come per chi scambia un pezzo di madreperla per argento o commette altro simile errore non vi è altro mezzo di togliere tale illusione che quello dell’immediata distinzione tra i due oggetti.
«L’ininterrotta intuizione della distinzione è il mezzo che conduce alla liberazione» (Yoga Sutra II, 26)
…ossia distinguere profondamente il Sé puro, spirituale, immutabile da tutto ciò che non è lui e che per l’illusione soggettiva noi concepivamo come nostro, vale a dire dal corpo, ai sensi, dall’organo interno. Significa riconoscere profondamente la serenità imperturbata del nostro vero io e respingere da noi come cose non nostre il desiderio, la passione, il piacere, il dolore, l’attività, che appartengono alla materia sola. (S. sutra I, 87)
Principi della liberazione
Vi sono due principi:
Teoria della distinzione
Pratica della distinzione
La teoria non basta da sola a produrre la distinzione. L’illusione non può essere soppressa se non con la meditazione, il raccoglimento, le pratiche costanti, l’indifferenza… (S. sutra VI, 29) Per conoscenza liberatrice non si deve intendere il mero apprendimento della verità, ma bensì l’intuizione diretta di essa, che è prodotta dalla meditazione.“La meditazione è l’organo interno senza oggetti” (S. sutra VI, 25) Nello stato ordinario la mente è offuscata da desideri, avversioni, passioni relative alle cose esterne e come uno specchio arrugginito o come un’acqua increspata essa è incapace di ricevere in sé l’immagine pura dello Spirito sempre presente. La soppressione delle modificazioni dell’organo interno si ottiene:
col rinunciare assolutamente a tutte le cose del mondo, ossia con l’impassibilità e l’indifferenza assoluta di fronte agli oggetti sensibili
con lo sforzo di concentrare per quanto è possibile il nostro pensiero sullo Spirito.
A questo scopo è utile fissare la propria mente tanto sulla caducità e sulle altre dolorose imperfezioni degli oggetti sensibili, quanto sulla insaziabilità del nostri desideri. “Il desiderio infatti non si sazia col suo soddisfacimento ma anzi aumenta, come il fuoco sacro pel burro liquefatto che vi si spande” (Mahabharata) «così immersa nella più profonda contemplazione, non più legata da verun attaccamento al mondo sensibile, l’anima del saggio si isolerà sempre più completamente da ogni cosa per affissarsi unicamente nella luce interiore dello Spirito finché l’intelletto (Bhuddi) nella sua concentrazione profonda non veda più null’altro né dentro di sé né fuori di sé, l’oscurità si dissipi e sorga l’intuizione luminosa, immediata, diretta dello Spirito:Io non sono (cioè la personalità finita che io credevo a me appartenere non è il vero essere mio), niente è mio (io non sono connesso con nessuna cosa),questo non è il Purusa(gli oggetti e le affezioni dolorose appartengono alla Prakriti e non al Purusa).»Il sistema Sankhya, Piero Martinetti 1897, pag 121 – Sankhya Karika 64
Il saggio
Chi è pervenuto alla liberazione:
Non è più soggetto né al merito né al demerito
Né alla gioia né al dolore
E’ al di là del bene e dal male
Egli non appartiene più a nessuna casta, a nessuna setta, a nessun ordine
Non ha più doveri
Non riconosce più né codici religiosi, né formule, né opere meritorie
Egli è un essere a parte distinto da tutti gli esseri viventi
Pertanto si può dire che la liberazione consiste: In che cosa consiste?
Al ritorno alla quiete eterna dell’incoscienza
Nell’annientamento totale ed eterno dell’individualità empirica
La personalità finita e dolorosa si dissolve; la coscienza si spegne per sempre.
La Natura rimane immobile e cessa di riflettere in sé la luce dello Spirito, l’anima continua imperturbata la sua esistenza impersonale e rimane sola/isolata da Prakriti (per questo in Patanjali si parla di isolamento, Kaivalya)
Qui di seguito liberamente si riporta per esteso la Karika con breve commento di G. Bertagni:
Kapila il saggio, a cui si rimanda questo testo, era figlio di Brahma. Rivelò la scienza dei 25 principi al Brahmano Asuri. 1 In conseguenza del triplice dolore (Duhkha) nasce il desiderio di conoscere i mezzi atti a contrastare tale oppressione. Se si obietta che questo è inutile esistendo per questo mezzi evidenti, risponderemmo che ciò è errato, avendo tali mezzi un valore relativo e non essendo definitivi. Il dolore è interno (fisico e mentale), esterno (causato da altri o da eventi naturali) e divino (esseri soprannaturali, Dei). I mezzi evidenti hanno effetto limitato e durata limitata, qui si cerca un mezzo definitivo, la conoscenza dei 25 principi. 2 I mezzi rivelati sono come quelli ordinari in quanto comportano impurità, esaurimento e squilibrio. Superiore ai mezzi rivelati è quello che si consegue in conseguenza della conoscenza discriminativa (Vijnana) del manifesto, dell’immanifesto e del conoscente. Mezzi rivelati (dai Veda) sono poco efficaci e non definitivi. Anche gli dei sono soggetti al Samsara e al Karma. Elementi del manifesto sono Buddhi, Ahamkara, i 5 Tanmatra, i 5 Bhuta, gli 11 sensi (Manas, 5 Jnanendrya, 5 Karmendrya). L’immanifesto è Prakriti, il conoscente Purusha . 3 Prakriti non è prodotta, i 7 principi (Tattva) successivi ovvero Buddhi, Ahamkara e i 5 Tanmatra, sono prodotti e produttori; gli altri 16 sono esclusivamente prodotti. Purusha non è prodotto ne produttore. Gli altri 16 … Manas, 5 Jnanaendriya, 5 Karmaendiya, 5 Butha 4 La percezione sensoriale, l’inferenza (deduzione) e la parola degna di fede (testimonianza attendibile) sono i 3 mezzi di retta conoscenza, dal momento che includono tutti gli altri possibili; è in forza di tali mezzi che si stabilisce in modo veritiero il conoscibile. 5 La percezione consiste nella determinazione dei vari oggetti per mezzo dei sensi. L’inferenza, triplice, deve essere preceduta dal segno caratterizzante e dall’oggetto che la caratterizza. La parola degna di fede è la rivelazione (Veda). Inferenza: a priori: vedendo nuvole nere che si addensano ne deduciamo (prevediamo) che presto pioverà a posteriori: vedendo pozzanghere ne deduciamo che sia piovuto fondata sull’osservazione generale: il moto delle nuvole ci conferma l’esistenza di un vento … preceduta dal segno caratterizzante: vedendo un cappello su un appendino ne deduciamo che esista un uomo che lo porta … preceduta dall’oggetto che la caratterizza: vedendo un appendino ne deduciamo che esista qualcuno che li appende i suoi abiti o il cappello 6 Il sovrasensibile è provato attraverso l’inferenza a posteriori e a quella basata sull’osservazione generale, ciò che sfugge e non è visibile direttamente si afferma grazie alla parola degna di fede (Veda). Il sovrasensibile sono la Prakriti e Purusha , non percepibili attraverso i sensi. L’esistenza della Prakriti si deduce dall’oggetto caratterizzante che è il manifesto. Essendo il manifesto e la Prakriti insenzienti e pur apparendo come tali (senzienti) si postula la necessità di un principio altro, Purusha. 7 Eccessiva distanza o vicinanza, limitazione sensoriale, distrazione, sottigliezza, interposizione, soppressione e commistione con oggetti omogenei impediscono la percezione. 8 Prakriti non è percepita per la sua sottigliezza, non per la sua inesistenza. Possiamo dedurre la sua esistenza dai suoi effetti, costituiti dalla serie dei vari principi, primo Buddhi: questi sono, rispetto alla Prakriti, conformi e difformi. Conformi e difformi: come i figli somigliano a volte ai genitori e altre no, così avviene per gli oggetti del manifesto 9 Considerato che l’inesistente non può essere prodotto, che si sceglie il materiale in quanto un oggetto non può essere prodotto da un qualsivoglia altro, che una cosa può essere realizzata solo da chi ha la capacità di farla, che l’effetto è coesistente nella causa: in base a tutto questo affermiamo che l’effetto preesiste nella causa. … l’inesistente non può essere prodotto: l’effetto preesiste nella propria causa … il materiale: per fare l’olio ci vogliono le olive … ci vuole la capacità di farla: strumenti, materiale e abilità specifica sono necessarie a realizzare qualsiasi oggetto … l’effetto preesiste nella causa: la mente e gli altri oggetti sono pre-esistenti in Prakriti. 10 Il manifesto è causato, non eterno, non pervadente, attivo (mobile), molteplice, basato, dissolubile, costituito di parti, dipendente. L’immanifesto è il contrario. … è causato: origina da Prakriti, che contiene a priori ogni manifestazione. … non eterno: ciò che nasce ha sempre una fine, esiste nel tempo … non pervadente: è limitato, con include il tutto … attivo: si trasforma … molteplice: composto da più elementi … basato: ha origine in altro … dissolubile: si disgrega ad ogni istante … costituito da parti: riprende il concetto di molteplice … dipendente: il suo potere nasce dalla Prakriti L’immanifesto è il contrario: non essendovi nulla prima di Prakriti, essa è non causata, eterna, pervadente, passiva, non basata, indissolubile, indipendente. 11 Il manifesto è sotto l’influsso (caratterizzato) dei 3 elementi costitutivi (Guna), è indiscriminato (indistinto), oggettivo, generale, non senziente, produttivo. Tale è anche Prakriti. Purusha è da un lato il contrario, dall’altro conforme. … 3 elementi: Tamas, Rajas e Sattva … oggettivo: distinto dal soggetto fruitore (Purusha) … generale: comuni a tutte le individualità … non senziente: non avverte gioia, dolore, offuscamento … il contrario: è fuori dall’azione dei 3 Guna; inoltre è senziente, soggettivo, discriminate, percettivo, consapevole, improduttivo … conforme: come Prakriti anche Purusha è ingenerato, preesistente 12 I 3 guna contengono in essenza il piacere (Sattva), il dolore (Rajas) e l’offuscamento (anche torpore, Tamas) e la capacità intrinseca, il potere, di illuminare (Sattva), attivare (Rajas) e limitare (Tamas). L’uno con l’altro si sostengono, si combattono, si producono, si accoppiano, esistono uno in funzione dell’altro. 13 Sattva è illuminante e leggero, Rajas mobile e stimolante, Tamas ostruttivo e greve (pesante e coprente). Il loro combinarsi è ordinato a un fine, come avviene per la lampada. … per la lampada: olio, stoppino e fuoco sono assai diversi ma ordinati a un fine producono luce; ci sta dicendo che la dinamica dei Guna è funzionale e funziona 14 L’incapacità discriminativa e le altre proprietà del manifesto sono provate dall’esistenza dei tre elementi costitutivi. L’immanifesto è provato per essere l’effetto coessenziale alla causa e per l’inesistenza di quanto risulti contrario. … è provato per …: il legame che lega il manifesto all’immanifesto è lo stesso che lega la stoffa ai fili; inoltre una stoffa nera viene da fili neri etc. 15 L’immanifesto come causa esiste a motivo della finitezza dei vari oggetti distinti, a causa della consequenzialità, dell’attività basata sulla capacità intrinseca, della separazione tra causa ed effetto, della non distinzione dell’omniforme. … finitezza … : se il manifesto fosse la causa prima sarebbe senza misura … della consequenzialità: l’effetto manifesto ha come causa l’immanifesto … basata sulla capacità …: ognuno tende a fare ciò in cui riesce meglio … della separazione …: l’immanifesto è causa, il manifesto effetto, i due sono separati; l’argilla con cui è fatto il vaso è differente dall’acqua che contiene … il mondo si riassorbe nella Prakriti alla fine di ogni era cosmica, in senso contrario a quello di manifestazione 16 L’immanifesto come causa esiste, esso si svolge per effetto dei 3 elementi costitutivi, sia per combinazione che per un evolversi che è dovuto alle differenze inerenti a ciascuno degli elementi costitutivi, al modo dell’acqua. Al modo dell’acqua: l’acqua che cade dal cielo ha un unico sapore che cambia entrando essa in contatto con altri oggetti 17 Dal fatto che un oggetto composto esiste in funzione di un altro, che deve esserci il contrario dei tre elementi costitutivi etc., che deve esistere un ente che presieda, che deve darsi un soggetto fruitore e che si constata l’attività tendente all’isolamento, da tutto questo deduciamo l’esistenza del Purusha. L’esistenza del Purusha si inferisce dal fatto che un oggetto composto esiste in funzione di un altro e quindi la mente e gli altri oggetti, di per sé insenzienti, esistono in funzione del Purusha, che è il fruitore. Inoltre deve esistere il contrario dei tre Guna. 18 La pluralità dei Purusha è dimostrata in questo modo: nascita, morte e organi sono fissati separatamente per ogni individuo, l’attività non è simultanea; esistono inoltre le diversità indotte dai guna. 19 Dal contrasto si inferisce che Purusha è testimone, isolato, indifferente, percipiente e non agente. … contrasto: differenza tra la natura di Purusha e quella di Prakriti … testimone: non gli compete l’azione ma la testimonianza, l’esperienza; … isolato, cioè differente dai Guna; … indifferente o meglio imperturbabile: non soggetto a cambiamenti ne combinazioni; … percipiente e non agente: è conseguenza di quanto detto sinora. 20 Il dissolubile, di per sé insenziente, diviene come senziente in virtù dell’unione con Purusha; Purusha, pur essendo imperturbabile, si fa come attivo rispetto agli elementi costitutivi. 21 La connessione di Purusha con Prakriti si realizza per mutuo beneficio, vale a dire affinchè Purusha, contemplando Prakriti, giunga all’isolamento. Il congiungersi di entrambe è paragonabile a quello di uno zoppo con un cieco; da tale unione deriva il processo creativo. Purusha è coscienza, Prakriti potenza e esistenza. 22 Da Prakriti discende Buddhi o Mahat, da questa Ahamkara; da questo il gruppo dei 16, da 5 del gruppo dei 16 originano gli elementi grossolani (Butha). … gruppo dei 16: Manas, 5 Jnanendriya, 5 Karmendriya, 5 Tanmatra da cui i Butha. 23 Buddhi è determinazione (potere di discriminazione); la sua funzione consiste nell’accertare la realtà ed essa è costituita da virtù, conoscenza, distacco e potere ove prevalga il Sattva, è costituita dal contrario in caso prevalga Tamas. 24 Ahamkara consiste nella autoaffermazione. Da quello si dipartono due creazioni: 11 sensi e 5 tanmatra 25 Dalla parte sattvica di Ahamkara (Vaikrita A.) discendono gli undici sensi, da quella tamasica (Bhutadi A.) i 5 Tanmatra. Entrambi fanno capo alla parte Rajasica di Ahamkara (Taijasa A.). 26 I sensi mentali sono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e la pelle. La voce, le mani, i piedi, l’ano e i genitali sono i sensi d’azione. 27 Il senso interno (Manas) possiede la natura di entrambi: è l’organizzatore. Ha la capacità di riflettere ed è poi da considerarsi alla stregua di un senso in forza dell’affinità. Infine tanto la varietà dei sensi quanto le varietà degli oggetti esterni dipendono da particolari modificazioni dei Guna. … in forza dell’affinità: derivando tutti dall’aspetto sattvico dall’Ahamkara. 28 Le funzioni dei 5 sensi mentali sono le differenti percezioni, quelle dei sensi d’azione sono il parlare, il prendere, il camminare, l’evacuare e il godere. 29 La funzione dei 3 consiste nelle loro caratteristiche e non è comune. La funzione comune è rappresentata dai 5 Vayu, cioè Prana Vayu e gli altri. … dei 3: i Tattva interni, Buddhi, Ahamkara e Manas … funzione comune: soffio ascendente (Prana Vayu), soffio discendente (Apana Vayu), soffio equilibrante (Samana Vayu), soffio verticale (Vyāna Vayu), soffio pervadente (Udāna Vayu) 30 La funzione dei 4 nei riguardi del percepibile è sia istantanea che graduale. La funzione dei 3 nei riguardi di ciò che non è oggetto di percezione diretta deve essere preceduta da quella. … dei 4: Buddhi, Ahamkara e Manas + un altro senso 31 Essi compiono ciascuno la propria funzione, la quale è causata da un impulso che essi esercitano l’uno sull’altro. Unica causa dell’azione è il fine del Purusha. Da nessuno un senso può essere mosso ad agire. … Essi: Buddhi, Ahamkara, Manas … può essere mosso ad agire: tutto è finalizzato alla coscienza. 32 I sensi sono 13; loro funzione sono il prendere etc. I loro oggetti, rappresentati da ciò che è da prendere etc., sono 10. 33 I sensi (organi) interni sono 3 (di 3 generi), quelli esterni 10 e costituiscono gli oggetti dei primi 3. I sensi esterni esercitano le loro funzioni nel presente, mentre gli interni in tutti e 3 i tempi. 34 Di questi sensi esterni i 5 mentali (Jnanaendriya) possono applicarsi a oggetti specifici (grossolani) e non specifici (sottili, prerogativa di Dei e Yogi). Riguardo agli organi di azione (Karmaendiya) la voce ha solo il suono come oggetto (discutibile), gli altri hanno invece 5 oggetti (i 5 Butha). … 5 oggetti: etere, aria, fuoco, acqua, terra 35 Avendo Buddhi, Ahamkara e Manas la facoltà di relazionarsi con tutti gli oggetti (in ogni tempo), i 3 sensi interni sono come i guardiani delle porte, gli altri le porte. … I guardiani …: hanno la facoltà di controllare il flusso delle informazioni … Le porte …: sono le vie di accesso al mondo esterno 36 Questi sensi, che sono differenti modificazioni dei Guna e diversi l’uno dall’altro agiscono al modo di una lampada (che rende visibile). Essi presentano i rispettivi oggetti a Buddhi affinché divengano percepibili per Purusha. … diversi l’uno dall’altro: hanno oggetti differenti. 37 Dal momento che Buddhi tutto ciò che procura lo procura perché Purusha ne possa fruire è dunque essa, Buddhi, che distingue la sottile differenza tra Prakriti e Purusha. … tutto: quello che cade sotto il dominio dei sensi nei tre tempi … la sottile differenza …: ciò che è peculiare all’uno o all’altra 38 Gli elementi sottili (Tanmatra) sono non specifici (Avisesa); da questi sono prodotti i 5 grossolani (Butha) che sono chiamati specifici (Visesa) e sono calmi, violenti, offuscatori (piacevoli, penosi e indifferenti). … calmi, violenti, offuscatori: a seconda della prevalenza di un Guna e dalla relazione con il percipiente. 39 I sottili, quelli nati da padre e madre insieme con gli elementi grossolani rappresentano i 3 generi di oggetti specifici: di essi i sottili sono fissi mentre quelli nati da padre e madre sono defettibili. … I sottili: gli elementi sottili costituiscono Buddhi, Ahamkara e Manas; secondo altra interpretazione qui si devono intendere solo Manas e i 10 Indriya, che rientrano nella categoria della specificità (Vishesa) … nati …: ovulo e spermatozoo (elementi grossi) attorno a cui si consolida il corpo sottile … elementi grossolani: il nutrimento che serve per crescere il corpo fisico … sono fissi: ci dice che Buddhi, Ahamkara e Manas hanno continuità dopo la morte, il corpo fisico decade 40 Il corpo sottile, formatosi in principio, distaccato, fisso, composto da Buddhi, Ahamkare, Manas ed elementi sottili, incapace di fruizioni, trasmigra. Esso è impregnato dei modi di essere (Bhava o disposizioni mentali, causa del Samsara). … formatosi in principio: all’origine della creazione … incapace di fruizioni: fruisce degli oggetti attraverso la mediazione del corpo grossolano 41 Come una pittura non può esistere senza una tela e un’ombra senza un palo, così il corpo grossolano (che è perituro) non può esistere senza un supporto non dissolubile (corpo sottile). … vale nei due sensi … le due dimensioni si giustificano e sostengono a vicenda 42 In vista del fine del Purusha il corpo sottile, in funzione della sua connessione con gli strumenti e i loro effetti e in unione con il potere della Prakriti, agisce al modo di un attore. Si sottolinea come l’esperienza, che dall’esteriore porta all’interiore, ha come fine la comprensione del Purusha e la liberazione. … gli strumenti …: sono le virtù … al modo di un attore: il corpo sottile che si connette con un embrione ne esce essere umano, divinità o animale senza per questo perdere la sua Prakriti originaria 43 I modi di essere (Bhava), che sono la virtù e tutto gli altri, sono innati, Prakritili (naturali) e prodotti o acquisiti. Essi risiedono nel senso. L’embrione e tutto il resto risiedono nell’effetto. … innati: le 4 disposizioni innate sono conoscenza, distacco, virtù, potenza; … Prakritili: effetto del karma e del lignaggio … prodotti: derivano da insegnamento di un Guru, sono la conoscenza da cui deriva il distacco, dal distacco la virtù, dalla virtù il potere. Essi crescono quando Sattva è dominante, in caso contrario (cresce Tamas) sono il contrario. I quattro Bhava possono essere sattvici o tamasici (quindi 8) e sono chiamati Nimitta; divengono attivi al momento della fecondazione dell’ovulo. … risiedono nel senso: Buddhi … nell’effetto: il grossolano, corpo etc. 44 Dalla virtù l’ascesa, dalla sua assenza la discesa, dalla conoscenza l’emancipazione, dal suo contrario il legame. … ascesa: verso piani di consapevolezza superiori o mondi degli dei … discesa: il passaggio a mondi inferiori o inferi … la conoscenza è quella dei 25 principi qui esposta 45 Dal (solo) distacco si produce l’assorbimento in Prakriti (prevale Tamas); dall’attaccamento appassionato la trasmigrazione (prevale Rajas). Dal potere l’assenza di ostacoli, dal suo contrario l’effetto opposto. … assorbimento … : senza la conoscenza il distacco non porta alla liberazione … attaccamento appassionato …: offrire sacrifici etc. per averne godimenti 46 Questo (quanto esposto nei Sutra precedenti) è creazione della conoscenza e prende il nome di impedimento (falsa conoscenza), incapacità, contentamento o compiacimento e ottenimento o Siddhi. A motivo poi del conflitto che nasce tra i Guna per il loro reciproco squilibrio, le differenti forme di tale creazione diventano cinquanta. … Questa è …: l’insieme dei 16 strumenti (8 cause, i Bhava, e i loro effetti e cioè virtù elevazione, distacco, dissoluzione in Prakriti, potenza, assenza di impedimenti, vizio discesa nei mondi inferi, ignoranza, legame, passione, rinascita, debolezza, impotenza) è creazione di Buddhi (conoscenza) … impedimento: dubbio, ignoranza … incapacità: il dubbio rimane anche successivamente alla percezione … contentamento: mancanza di interesse, rifiuto a conoscere … ottenimento: essendo le percezioni in stato sattvico si determina la comprensione anche per interposto oggetto, ad esempio vedendo un uccello appollaiato in alto se ne intuisce la presenza di un palo 47 5 sono le forme dell’impedimento, 28 quelle dell’incapacità dovuta a deficienze dei sensi, 9 del contentamento, 8 dell’ottenimento o perfezione. … impedimento: 1 – falsa conoscenza Avidya, 2 – egoismo Asmita, 3 – attaccamento Raga, 4 – repulsione Dvesa, 5 – attaccamento alla vita Abhinivesha 48 Le forme di Avidya e di Asmita sono 8; di Raga esistono 10 modalità; Di Dvesa 18 e altrettanti di Abhinivesha. 49 I difetti degli 11 sensi insieme con quelli della mente sono le incapacità. I 17 difetti della mente sono dovuti al contrario della soddisfazione e dell’ottenimento. … incapacità degli 11 sensi: sordità, cecità, paralisi, perdita del gusto, dell’olfatto, mutismo, l’essere zoppi, l’impotenza e la follia. … i 17 difetti della mente: le forme di contentamento sono 9, quelle di ottenimento (Siddhi) 8. 50 I 9 tipi di contentamento (Tusti) sono i seguenti: 4 interni (che prendono il nome di) Prakritili, strumenti, tempo e buona sorte e 5 esterni, ossia quelli dovuti all’astinenza dagli oggetti dei sensi. 51 Gli 8 ottenimenti sono il ragionamento, l’istruzione orale, lo studio, la triplice soppressione del dolore, l’acquisto di amici e la liberalità. Quelli sopramenzionati (impedimento, incapacità e contentamento) sono il triplice uncino rispetto all’ottenimento. 52 Non può darsi corpo sottile senza modi di essere, né può esserci sviluppo dei modi di essere senza corpo sottile. Cosicché si svolgono due creazioni: l’una detta del corpo sottile, l’altra dei modi di essere. Modi di essere: creazione della conoscenza, perché ogni corpo si ottiene in base agli impulsi Karmici. Vale anche al contrario. 53 La creazione divina è ottuplice, di 5 tipi quella subumana, unica quella umana. Tale in breve la creazione. 54 In alto predomina Sattva, in basso Tamas; nel mondo intermedio la prevalenza è di Rajas: così da Brahma sino a un tronco. 55 Colà Purusha, che è senziente, percepisce il dolore prodotto dalla vecchiaia e dalla morte, fino al venir meno del corpo sottile; la sofferenza proviene direttamente dalla natura propria di questi stati di esistenza. Colà: in tutti gli esseri e nei 3 mondi … fino al venir meno: sino alla liberazione dalla Prakriti, all’estinzione del corpo sottile che avviene con l’illuminazione 56 Sicché questo sforzo in quanto viene fatto dalla Prakriti, a cominciare dalla mente fino agli elementi grossi specifici, avviene per la liberazione di ogni singolo Purusha , cioè a vantaggio di un altro, pur sembrando avvenire per il proprio. 57 A quel modo che il latte insenziente funziona in vista della crescita del vitello, così la Prakriti agisce in funzione della liberazione del Purusha. 58 L’immanifesto agisce per liberare Purusha, non diversamente dalla gente comune che si adopera allo scopo di soddisfare il desiderio. 59 Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata in pubblico, così Prakriti cessa la sua attività essendosi manifestato il Purusha. 60 Prakriti, che è generosa e provvista degli elementi costituivi, con innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per sé, compie l’utile del Purusha che è sprovvisto degli elementi costitutivi e non ricambia in nulla. 61 Nulla è più sensibile di Prakriti la quale, non appena si rende conto di essere stata vista, non si porge più allo sguardo del Purusha. 62 Perciò non si può dire che Purusha sia legato o liberato ne che trasmigri. Solo Prakriti, con i suoi molteplici stadi, è legata o liberata o trasmigra. 63 La Prakriti lega se stessa da se medesima per via di 7 forme, per mezzo poi di un’unica forma si libera, compiendo così il fine del Purusha. … 7 forme: virtù, distacco, potere, vizio, ignoranza, attaccamento e assenza di potere 64 Perciò, grazie all’esercizio dei principi nasce una conoscenza la quale ci porta a considerare: Io non sono, nulla è mio, questo non sono io; questa conoscenza è totale e, non dandosi errore, risulta unica e pura. 65 In virtù di ciò (la conoscenza dei Tattva) Purusha, che se ne sta raccolto in se stesso come uno spettatore, vede la Prakriti che ha cessato di essere produttiva e che risulta svincolata dalle 7 forme (tornata allo stato potenziale) per avere alfine compiuto il fine del Purusha. 66 Purusha, uno, è indifferente come uno spettatore di teatro; Prakriti, una, cessa la sua attività quando sa di essere stata vista. Malgrado il contatto esistente tra i due, non sussiste movente per ulteriore creazione. 67 Ottenuta la perfetta conoscenza la virtù e le altre forme divengono improduttive; tuttavia, per effetto degli impulsi karmici, il corpo permane ancora, così come accade col movimento della ruota. 68 Avvenuta la separazione del corpo e avendo la Prakriti, poiché il suo fine è compiuto, cessata l’attività, Purusha perviene all’isolamento assoluto e definitivo. … Isolamento …: astrazione dalla Prakriti 69 Questa segreta conoscenza intesa a compiere il fine del Purusha e nella quale sono considerate nascita, durata e dissoluzione degli esseri è stata rettamente esposta dal sommo veggente. 70 Il saggio compassionevolmente trasmise questa dottrina a Asuri; egli la trasmise a Paricasikha il quale di molto la ampliò. 71 Tale dottrina tramandata mediante la serie dei discepoli fu messa in strofe da Isvarakrisna la cui nobile mente appieno conosceva il sistema filosofico. 72 Gli argomenti trattati in queste 72 strofe sono in tutto e per tutto quelli dell’intero Sastitantra, tolti i racconti didattici e le controversie con le altre scuole.
Le origini dello Yoga risalgono a ben 5000 anni fa, forse più. I più antichi reperti storici vennero trovati nel 1927-1931 negli scavi archeologici di Mohenjo-Daro e Harappa.
Queste città fiorirono nel periodo compreso tra il 3300 a.C. e il 1600 a.C. e sono tra le più importanti città fortificate della civiltà della valle dell’Indo anche se i primi stanziamenti di coltivatori nella zona risalgono alla metà del settimo millennio a.C..
ricostruzione artistica di Harappa
Degno di nota è che ad Harappa tra il 2600 e il 1900 a.C. venne introdotto uno dei più antichi metodi di scrittura. A seguito di alcuni cambiamenti climatici e le condizioni di coltivazione rese più difficili da continui allagamenti Harappa venne definitivamente abbandonata nel 1600 a.C e la popolazione, dispersa ai piedi dell’Himalaya, abbandonò l’uso della scrittura con un conseguente impoverimento culturale.
Mohenjo-Daro, cittadina analoga di circa 40.000 abitanti era piuttosto ricca, aveva scambi con la mesopotamia, e nella parte centrale poteva vantare opere di edilizia molto innovative per l’epoca: bagni pubblici, sale per conferenze, pozzi, rudimentali fognature e gestione delle acque sporche, alcune case addirittura con fornaci sotterranee per riscaldare l’acqua.
I reperti trovati per quanto riguardano lo Yoga sono alcune statuette di argilla che mostrano alcune posizioni che venivano praticate ai tempi.
La religione dell’epoca
La religione dell’epoca di stampo dravidico basava il suo culto sulla Dea Madre, identificandola con la fecondità e con la forza della natura, sul culto di Shiva, sugli alberi sacri, simboli fallici, vacche e cobra sacri. A questo periodo risalgono alcune rappresentazioni del dio Shiva in posizioni yogiche per potenziare e sublimare le energie sessuali.
Le invasioni degli Arii
A seguito delle invasioni degli Arii (1500 a.C) le popolazioni della civiltà dell’Indo, già in difficoltà per le condizioni sempre più difficili di agricoltura, vennero disperse. Gli Arii, uccidendo e costringendo i superstiti alla fuga verso le regioni centro-meridionali dell’India, dove ancor oggi troviamo discendenti come la popolazione dei Tamil, si insediarono nella zona che divenne nuovamente fiorente.
I sopravvissuti, sfavoriti dalle forti differenze somatiche, furono relegati in fondo alla piramide sociale indiana, costituendo i Parya, o fuori-casta, ma portarono con sè usi, costumi, aspetti religiosi e anche lo yoga.
Far risalire le origini dello Yoga alla popolazione Dravidica ad alcuni dà fastidio perché verrebbe riconosciuta alla classe dei Parya un’importantissima eredità. Tuttavia ci sono studiosi indiani che con coraggio riconoscono alle popolazioni di lingua Tamil derivanti dai Dravidi questo merito.
sopra: tratti Dravidici, sotto tratti degli Arii
Il culto di Shiva
Shiva, nelle sue originarie caratteristiche sessuali, risale alla divinità dravidica e viene affiancato a Shakti, la Madre Terra.
Il tantrismo e l’Hatha Yoga che ne deriva, non sono figli dell’India ariana bensì della più antica civiltà dell’Indo. La stessa espressione Hatha Yoga dimostra l’origine non ariana: Ha “Sole” Tha “Luna” sono termini decisamente differenti da quelli sanscriti Surya e Chandra.
Shiva e Shakti, i due aspetti del Divino
Presso la religione induista, il Liṅga consisteva in un oggetto dalla forma ovale, simbolo fallico considerato una forma di Śiva. In termini metafisici, rappresenta la forma dell’Assoluto trascendente senza principio né fine, oppure la forma del relativo formale che si fonde con l’Assoluto senza forma, o Brahman.
Shiva Lingam Ioni Shakti
Gli dei induisti
Mano a mano che la civiltà degli Arii cresce florida ecco nascere la grande eredità Vedica. Le energie di Shiva e Shakti si rivedono nelle tre divinità più importanti del culto Induista: Brahman, il creatore, Vishnu, colui che mantiene il creato, e Shiva, colui che lo distrugge e grazie al quale il nuovo può manifestarsi.
La controparte femminile di questi tre dei è Saraswati per Brahman, Lakshimi per Vishnu e Parvati per Shiva.
Saraswati
Lei rappresenta la parola, l’eloquenza, la sete di sapere, la conoscenza intellettuale, mentre come retaggio ed evoluzione della sua antica connessione con il fiume simboleggia anche l’acqua e, per estensione, la pulizia e la guarigione.Chiara, luminosa, associata a immagini come il cigno, il loto bianco e il colore bianco in genere, è però talmente virtuosa e spirituale che sessualità ed eros sembrano non appartenerle. Al punto che anche il suo rapporto con il dio Brahma è ambiguo: ne è sia figlia sia moglie. Ma non c’è niente di incestuoso, piuttosto la leggenda di una dea creata appositamente dal proprio sposo con una missione, quella di promuovere e proteggere la conoscenza.
Lakshmi
Siede serena su un grande e roseo fiore di loto, simbolo di purezza e spiritualità, la “dea madre” Lakshmi, consorte di Vishnu e madre di Kama, il dio dell’amore. Dotata di carnagionedorata, dolcissima femminilità e classica bellezza, ha quattro braccia e le sue mani sono ornate di gioielli: con una offre benedizioni, un’altra invece lascia sgorgare da una coppa monete d’oro e altri simboli di prosperità e abbondanza. Le altre due, infine, sorreggono ciascuna un altro fiore di loto. Spesso accanto a lei compaiono corsi d’acqua placida o elefanti, entrambi manifestazioni di impegno costante e di realizzazione materiale e spirituale. Considerata anche dea della ricchezza, è presente in forma di immagine o statuetta in moltissime case induiste. Dolcezza, protezione ematernità sono le sue caratteristiche, e nella tradizionela donna sposata dovrebbe ispirarsi a lei, serenamente intenta a dare sostegno, così come il marito dovrebbe cercare nella moglie un’idea di Lakshmi. Ed ecco allora che nell’iconografia abbondano anche le immagini di felicità coniugale di Lakshmi e Vishnu, spesso raffigurati insieme mentre sono affiancati, legati, abbracciati, con lei appoggiata sulle ginocchia di lui oppure intenta a massaggiargli i piedi.
Parvati
In un intreccio che sembra ricordare “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock, la leggenda narra che la prima moglie di Shiva, Sati, diede fine alla sua vita immolandosi, spinta dalla vergogna e dall’indignazione dopo che suo padre aveva offeso il genero non invitandolo a una cerimonia, e che da allora il neo-sposo e subito vedovo Shiva, consumato dal dolore, si rifugiò nell’Himalaya per vivere da asceta, meditando e rifiutando la vita terrena. Ma la rinuncia all’amore non era destinata a durare: ecco ripresentarsi Sati reincarnata sotto forma di una nuova donna-dea, Parvati, figliadella personificazione della montagnae di una ninfa. La saggia e bella Parvati, le cui grazie estetiche non sembrano destare alcun interesse nel suo amato Shiva, capisce che deve ammaliarlo giocando nel suo stesso territorio e anche lei si rifugia da asceta nella montagna, finché l’oggetto del suo amore, conquistato da tanta spiritualità, non si decide a prenderla in moglie. Esiste anche un’altraversione della leggenda, più affine alleoccidentali storie di Cupido: secondo il romanzo epico Kumurasambhavam, il dio dell’amore Kama decise di aiutare Parvati scoccando una freccia in direzione del dio che meditava, per colpire la sua attenzione. Distratto dalla meditazione, Shiva aprì il terzo occhio con cui però incenerì all’istante il povero Kama, privando così anche il mondo della forza del desiderio sessuale. Ma con l’intercessione di Parvati, nel frattempo divenuta la nuova moglie di Shiva, ecco resuscitare Kama. L’iconografia tradizionale mostra due sole braccia per la bella e gentile Parvati, con il sinistro leggiadramente sollevato e il destro che tiene in mano un fiore di loto. Detta anche “figlia della montagna”, è madre di Ganesh e Skanda e anche lei rappresenta unidea le femminile di delicatezza e benevolenza.
Il sistema delle Caste
Il sistema a caste aveva all’epoca anche la sua ragion d’essere, partendo dal Re che era illuminato, le caste più vicine erano quelle che più assomigliavano al Re in termini di conoscenza e visione, dall’alto al basso le caste non avevano la stessa levatura interiore e avevano compiti diversi.
Ad esempio lo Yoga era solo per le caste più elevante e che divenivano a loro volta manifestazioni di ciò che avevano realizzato.
Le caste erano quindi come le diverse parti di un corpo umano, ognuna con ruoli diversi seppur tutte necessarie affinché il corpo possa vivere. In questo modo si generava anche un movimento verso l’alto, infatti le caste minori erano spronate ad elevarsi interiormente per poter passare alle caste più alte.
Logico che se il Re non è illuminato e le persone invece di essere messe nelle varie caste in base alla levatura interiore sono messe a caso il sistema non regge. Tuttavia le caste sono perdurate fino ad oggi anche se non rispecchiano più la logica originale.
I Veda
la rivelazione (Sruti) dei veda comincia nel quindicesimo secolo a.C.
Si ricorda che fino al primo secolo dopo Cristo la trasmissione dell’insegnamento avveniva oralmente in lingua Sanscrita, lingua conosciuta solo alle caste indiane più elevate.
I Veda sono divisi in raccolte, chiamate Samitha (Samitha=Insieme), e sono inni, formule magiche di magia bianca e nera, preghiere, mantra…
Fu rivelato ai Brahmani – sacerdoti del tempo e poi aperto come sapere anche agli kshatryia – guerrieri e anche ai Vaishya – commercianti. Non venne comunque mai rivelato alla casta dei Sudra.
Le diverse Samitha sono:
1.RG – Veda
2.Sama – Veda
3.Yajur – Veda
Che insieme fanno la triplice scienza sacerdotale. L’ultima Samitha sono le Atharva Veda che è un repertorio di incantesimi di magia bianca e nera.
L’ultima parte dei veda sono i Vedanga, ossia i Brhamana, Aranyaka e le Upanishad (Vedanta).
Brahmana e Aranyaka
Il popolo degli Ari (da Arya = nobile) arrivato in india a seguito di migrazioni che partirono dal nord est europeo tramandò lo yoga alle popolazioni locali.
In europa vi era la glaciazione e quindi questo popolo migrò in paesi più caldi e miti per poter sopravvivere, logicamente dove c’è caldo c’è anche vegetazione e cibo.
I Brahmana e Araniaka (detti anche Vedanga) sono i canti delle foreste, canti fatti dai Rishi che si spostarono appunto nelle foreste.
Upanishad
Le Upanishad (che vuol dire “seduti ai piedi del maestro” e che sarebbero i Vedanta, ossia gli insegnamenti pratici dei Veda) sono scritti posteriori e risalenti tra l’ottavo e il terzo secolo avanti Cristo e si dividono in antiche e medie Upanisad in base al periodo in cui vennero scritte.
Filosofia dei sistemi Darsana
Nei darsana (Drs=vedere, Darsana=visioni) invece abbiamo i sistemi per mettere in pratica le rivelazioni dei Veda e liberarsi dal Samsara
E’ il metodo scritto per realizzare quanto scritto nei Veda (Veda, Vedanga e Vedanta) e comprendono nello specifico 6 sistemi ordodossi, ossia Samkhya, Yoga, Nyaya, Vaiesika, Mimansa e Vedanta e tre sistemi eterodossi, ossia che contrappongono una visione che non ammette l’esistenza dell’Atman (Atman = Dio) e sono il Buddismo, il Jainismo e le scuole materialiste.
E’ durante lo sviluppo dei darsana che la società dell’epoca, avendo scambi commerciali con l’europa, contagia probabilmente alcune scuole filosofiche Greche da cui si spiegherebbero alcune loro somiglianze con quelle indiane.
Gli Yoga Sutra scritti da Patanjali si innestano quindi nella filosofia dei sistemi Darsana e può essere considerato il sistema pratico per realizzare quanto affermato dal Samkhya sebbene vi siano alcune sfumature che ne differenziano il contenuto.
Spesso è intesa come il momento di rilassamento finale.
Coperta, e si molla tutto.
Esistono diversi metodi per raggiungere uno stato di rilassamento profondo. Dallo Yoga Nidra con la rotazione della coscienza (percorso nel quale varie parti del corpo vengono nominate in successione e portate sullo schermo della coscienza, ossia vengono percepite), all’unione di alcune tecniche di pranayama con l’idea di rilassare il corpo o qualche sua parte…
Anche il Training Autogeno assomiglia molto allo yoga Nidra e da cui ha attinto se non le specifiche tecniche sicuramente i principi.
Vorrei farvi notare tuttavia alcune cose a riguardo che se non portate a livello conscio rischiano di diventare falsi miti e conoscenze errate.
Se è vero che la mente si abitua in fretta è anche vero che dall’abitudine acquisita, specialmente in modo inconscio, ci si forma un’idea e dall’idea la regola o lo schema mentale.
Una volta che abbiamo uno schema mentale, ecco la gabbia.
E’ vero che per rilassarsi si consiglia di spegnere i cellulari, di trovare un ambiente caldo, confortevole, silenzioso, in leggera penombra, con l’aria pulita, senza insetti, senza impegni impellenti, senza bambini che chiamano o che giocano, ben coperti, su un materassino di una particolare gomma che isoli bene dal pavimento, con una mezz’oretta almeno a disposizione ed eseguire determinate tecniche…
…ma è anche vero che se dallo Yoga impariamo a rilassarci SOLO ed ESCLUSIVAMENTE se ci troviamo nelle situazioni più idonee non stiamo muovendo un passo verso la libertà, ma verso una prigione.
E lo Yoga, ricordiamolo, è LIBERTA’.
Imparate pure a rilassarvi nelle condizioni più idonee, perché facilitano lo stato.
Se non hai mai sentito il profumo e il gusto di una pesca, ti avvicinerai ad una pesca, la assaggerai. Una volta che hai capito il suo gusto, non occorre trovare sempre e per forza l’albero di pesche mature per strada quando ne vorrai una, ma potrai portarti la pesca con te. Una volta che avrai imparato ad entrare in quello stato di rilassamento, per essere libero e godere della sua efficacia, dovrai portarti il rilassamento con te quando ti servirà.
Ma non ci saranno sempre tutte le condizioni più idonee…
…ed è questa la vera libertà.
Potersi rilassare anche quando NON E’ tutto perfetto.
E’ semplice. Devi lasciar andare l’idea che tutto debba per forza essere perfetto per permetterti di raggiungere quello stato.
Ma chi l’ha mai detto?
E se non ci riesci ancora, abbi compassione di te, amati, datti un abbraccio, fai un sorriso, e riprova.
E allora nel tempo riuscirai a fare un rilassamento profondo senza una tecnica, o seduto su una sedia in un aeroporto rumoroso, oppure in treno, o in un luogo freddo con spifferi d’aria, o avendo solo 5 minuti di tempo a disposizione, o a fianco a tuo figlio che gioca mentre ti rilassi con un occhio mezzo aperto per vedere cosa combina.
Bastano pochi respiri, o anche uno solo… ed espirando molli tutto, entri nello stato profondo.
E se la vita non ti darà nemmeno il tempo di quei cinque minuti proprio quando ne hai più bisogno…
…con un espiro consapevole lascerai andare persino l’idea di aver bisogno di un rilassamento. Rimarrà tutta la stanchezza di prima, certo, ma senza l’attrito del doverla vivere e sopportare, e magari invece con la curiosità di doversela portare appresso ancora un po’, e vedere se si riesce a stare abbastanza vigili e svegli, monitorando come gendarmi il nostro emotivo per non farsi colorare l’umore.
E se accade di ritrovarsi l’umore spigoloso perché stanchi, inspiro profondamente, e faccio un altro espiro, un altro lasciar andare, un altro mollar tutto. Mollare anche l’idea di poter avere tutto sottocontrollo, di poter usare la stanchezza come propulsione per esercitare la nostra attenzione e consapevolezza.
Questa volta è andata così, e nasce un sorriso di vera pace e libertà.
…la meditazione è il muro contro il quale ti scontrerai ai 100 all’ora.
Seduto per ore aspetterai la folgorazione.
Aspetterai visioni.
Aspetterai le siddhi o altri effetti speciali.
Proverai tecniche di concentrazione, di respirazione…e ti sentirai anche migliorare in alcune di queste.
Ma sarà sempre il tuo Ego a migliorare.
Se non lo farà forse ti inventerai cose e crederai di aver avuto visioni o illuminazioni (sarebbe troppo frustrante non aver mai realizzato nulla, no? meglio inventarsele ad un certo punto)
E quelle poche cose che capirai e nelle quali migliorerai ti sembreranno tanto all’inizio.
Ma alla fine, giorno dopo giorno, ti accorgerai che sei sempre tu e che in realtà non è mai accaduto proprio nulla di nulla.
Perché per accadere davvero qualcosa dovrai morire.
La persona deve morire.
L’Ego deve morire.
Non fisicamente.
Interiormente.
E la cosa più divertente in tutto ciò è che non lo puoi fare tu.
E’ una delle poche cose che non potrai fare/conquistare mai. O per lo meno non tu.
Non potrai mai disfarti dell’Ego. O uccidere l’Ego. Perché sarebbe sempre l’Ego a volerlo fare.
E’ questo il muro.
Quando nella meditazione ti schianterai ripetutamente sul muro, forse, finalmente sconfitto e affranto, realizzerai l’importanza di rivolgere i palmi delle mani verso il cielo…
…ed ecco che forse qualcuno/qualcosa ti concederà un’intuizione perché illuminarti non dipende affatto da te.
Che messaggio inconscio arriva alle nostre cellule?
La gioia di vivere?
O la pesantezza della vita?
Il nostro corpo, le nostre cellule, la nostra anima…saranno contente di Esserci?
La malattia e infine la morte potrebbero non essere allora problemi, non sono loro il problema.
Potrebbero essere la soluzione migliore che libera definitivamente dallo stress del lavoro, o da una vita sofferta, trascorsa a risolvere problemi. Ci pensano le nostre cellule a scegliere per noi, dopo infiniti messaggi ricevuti, anno dopo anno, mese dopo mese, settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, che la vita è dura, è un problema, è uno stress.
E’ possibile fare ciò che si fa ma vedendo il bicchiere mezzo pieno anziché mezzovuoto?
E’ possibile risolvere problemi col sorriso?
Perché le difficoltà della vita non sono erbe estirpabili, rimarranno sempre.
Come allora non percepirle come problemi da risolvere?
Spesso nello Yoga si sente parlare di accettazione.
Di non opporre resistenza alla vita, accettare quel che viene senza desiderare cambiarlo.
Lasciar andare.
Conveniamo tutti che accettare di essersi svegliati in una giornata di pioggia, di essersi sporcati la camicia, di trovare traffico o di dover rialzarsi dopo una sconfitta qualsiasi non è particolarmente difficile.
Ce la si può fare (alcuni con fatica ma ce la fanno)!!
Quando il lato più difficile della vita invece bussa alla tua porta, la situazione è diversa.
Nel lutto, nella malattia, accettare quel che viene dalla vita non è facile.
Tuttavia l’esercizio comincia proprio nella quotidianità: è nelle piccolezze e nei leggeri disagi di ogni giorno che ci si prepara a vivere anche i momenti più difficili (e in un certo verso il lavoro dello yoga aiuta proprio in questo).
Credo però che il termine accettare non aiuti a capire bene cosa si intenda veramente.
La sfumatura linguistica riportata anche nel dizionario associa all’accettare il “sopportare un evento negativo”.
Ma “sopportare” non è “accettare”.
Accettare è non creare resistenza alcuna, lasciar andare la resistenza.
Accettare non è viversi la vita con reticenza, rimuginando su ciò che ci accade, desiderando essere altrove o continuando a ripetersi che si vorrebbe essere in un altro posto.
La predisposizione d’animo che meglio descrive ciò che il vero accettare porta con sé sta ancora nel verbo “scegliere”.
Accettare un evento veramente vuol dire arrivare a sceglierlo dentro, scegliere di vivere ciò che la vita propone. Perché accettare non vuol dire vivere con resistenza ciò che la vita ti mette davanti, non vuol dire voler vivere altro e sopportare nel frattempo la nostra sofferta esistenza. La profonda accettazione include la scelta vera e consapevole, dire di sì alla vita, accettare la sofferenza, accoglierla, dire sì anche ai momenti più difficili come se li avessimo cercati, scelti.
E non è una scelta mentale.
Non riuscirete a convincervi con la mente.
E’ una scelta viscerale.
Va fatta con la pancia.
E’ un salto nel vuoto, un affidarsi alla vita in modo totale.
E’ scevra dalla paura di soffrire e pregna della consapevolezza che non ci siamo incarnati in questa vita per godercela, per spassarcela, ma per esperire.
Per vivere delle esperienze.
Giudicare le esperienze e categorizzarle in positive e negative è un brutto vizio.
La morale cattolica dell’“essere felici” è facilmente fraintendibile. Si rischia di crescere con l’idea che dobbiamo essere felici e che la sofferenza vada evitata come la peste.
Mio marito ha una malattia? Scappo con un altro uomo. Mia moglie soffre? Scappo con un’altra donna. Il mio amico soffre? Non lo chiamo più.
Inoltre vorrei farvi riflettere: opporsi che beneficio può portare?
Se ti opponi alla pioggia cesserà mai di scendere?